Uno spirito libero: Domenico Mennitti

Domenico Mennitti è scomparso il 6 aprile scorso, dopo una lunga malattia. Qualcuno forse si chiederà: chi era Mennitti? I pugliesi lo ricordano bene perché è stato sindaco di Brindisi dal 2004 al 2011. Lasciò l’incarico proprio per motivi di salute.

È stato deputato per tre legislature (dal 1979 al 1991) per il Movimento Sociale Italiano. Tuttavia Mennitti ha rappresentato un’anomalia della politica. La sua ascesa interna ai vertici del Msi lo aveva condotto a ricoprire la carica di vicesegretario nazionale vicario al tempo della segreteria di Pino Rauti. Con il ritorno al vertice di Gianfranco Fini, Mennitti, in nome di un principio di coerenza francamente inusuale per i politici italiani, che fa? Ammette la sconfitta e rassegna le dimissioni dal partito e dalla Camera dei deputati. La sua intenzione era di tornare a coltivare la passione per il giornalismo. Viene nominato direttore dell’antica testata napoletana del “Roma”, che avrebbe diretto per due anni. Giusto il tempo per rinverdire il suo impegno meridionalistico.

Con l’uscita dal partito ha pure interrotto l’esperienza di “Proposta”. Avviata nel 1985, la rivista aveva rappresentato il primo serio tentativo di costruire luoghi di dialogo tra le esperienze della destra e le correnti italiane del pensiero socialista e liberale, disposte a misurarsi fuori degli steccati ideologici. Non c’è da sorprendersi. Mennitti era pugliese e come tale avvertiva una naturale predisposizione al confronto fuori dagli schemi. Come la sentiva il suo conterraneo Pinuccio Tatarella, padre fondatore di Alleanza Nazionale e “Ministro dell’armonia” del primo Governo Berlusconi, che pronosticava un futuro da vivere oltre il confine tradizionale della destra ideologica, per attrarre nuovi consensi e rendere la proposta politica dei moderati più “ariosa”.

Mennitti conosceva la nobiltà del fare un passo indietro, nell’ora della sconfitta, ma sapeva accettare le sfide. Nel 1994, la discesa in campo di Silvio Berlusconi fu un’occasione troppo ghiotta per non provarci. Fu il primo coordinatore di Forza Italia. Ma non si candidò alle elezioni politiche del marzo del 1994. Rinunciò a tornare in Parlamento per una questione di stile. La decisione di non sfruttare a proprio vantaggio il momento favorevole lo collocò da subito una spanna sopra gli altri. Mennitti era uno spirito libero, non una rotella da ingranaggio della macchina. L’esperienza al vertice della nuova formazione non era destinata a durare. Anche in questo caso preferì farsi da parte. Tuttavia quella scelta, forse per lui dolorosa, si rivelò un bene per tutti noi perché gli dette il tempo di dedicarsi a creare quel piccolo gioiello di pensiero che è stata la rivista “Ideazione”.

Cosa è stata Ideazione? È stata una palestra per un certo numero di giovani, e meno giovani, intellettuali della nuova destra. È stata un τòπος, un luogo d’incontro e di dialogo tra persone che avevano un pensiero originale, o semplicemente strutturato sulle tematiche di una politica osservata ad ampio spettro. È stata un voler dire qualcosa di destra, in un mondo culturale che parlava altezzosamente un solo linguaggio: quello della sinistra marxiana e del popolarismo cattolico dossettiano. È stata un argine garantista e libertario all’imperversare, nelle edicole e negli scaffali delle librerie “politicamente corrette”, dello strumento di diffusione del pensiero unico giustizialista, molto in voga in quegli anni: “Micromega”.

Ideazione, nella sua veste editoriale, un po’ la ricordava “Micromega”. Per esserne nei contenuti ovviamente l’esatto contrario. Per alcuni di noi girare, in quegli anni Novanta, con Ideazione sottobraccio era indice di una orgogliosa condizione di diversità. Era un comportamento connotativo. Nella Napoli del “rinascimento” bassoliniano, ad esempio, era un modo per sentirsi dire dietro: “Un altro berlusconiano di merda”. Peccato, però, che l’establishment della destra politica italiana non abbia compreso a pieno l’importanza dello strumento Ideazione. Peccato che abbia pensato che fosse soltanto un gioco intellettuale per soliti noti. Peccato che non vi abbia puntato servendosene come supporto didattico per la formazione del nuovo personale politico. Peccato che non l’abbia utilizzata per mettere ordine nella babele delle lingue che si parlavano e si continuano a parlare nel “campo d’Agramante” del centrodestra italiano.

Mennitti, fin quando ha avuto la forza e le risorse finanziarie per portare avanti la sua creatura, l’ha fatto. Purtroppo per noi, è poi giunto il momento di cedere le armi e dichiarare finita quella esperienza. Non ne vada fiero il mondo liberale di quella sconfitta. È stata una grave perdita per tutti. Non solo per Mennitti.

Delle publicazioni di Ideazione che meritano di essere conservate con gelosa cura, un numero più degli altri ritorna alla mente perché suscitò, al momento della sua uscita, perticolare emozione. Era il n. 1 dell’Anno III – gennaio-febbraio 1996. Sulla copertina faceva bella mostra il faccione di Randolfo Pacciardi, morto di cancro qualche anno prima. Fu un atto di coraggio pubblicare la foto di lui sorridente. In sottocopertina si spiegava che quella foto voleva essere insieme un omaggio e un piccolo risarcimento storico a uno spirito libero vessato e ingiuriato dall’ostracismo dei suoi nemici. Giacché pronunciare soltanto il nome di Pacciardi, antesignano del presidenzialismo e della lotta alla partitocrazia, era un’eresia per la quale si correva il rischio di finire davanti ai tribunali dell’inquisizione di sinistra degli epigoni dei “Padri della Costituzione”. Pacciardi era stato un precursore del cambiamento, convinto che l’architettura istituzionale dello Stato fosse già obsoleta vent’anni dopo l’entrata in vigore della “Carta”. Per questo venne accusato di simpatie golpiste e il suo nome consegnato alla “damnatio memoriae”. Mennitti non si preoccupò di apparire “politicamente scorretto”. In quel numero a raccontare di Pacciardi ci pensò Franco Oliva con un suo articolo. Nella stessa sezione, dedicata al presidenzialismo, comparivano scritti di Giovanni Orsina, Peppino Calderisi, Giorgio Rebuffa e uno pseudonimo, “Publius”, che richiamava le figure storiche di tre patrioti americani, Hamilton, Madison e Jay, impegnati a scrivere saggi clandesini in favore della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Non conosciamo l’identità che si celava dietro lo pseudonimo. Probabilmente era lo stesso Mennitti, o forse la personalità incombente dell’ex-presidente Cossiga. Suggerirei di interrogare il nostro direttore, Arturo Diaconale, che potrebbe svelare l’arcano visto che, a quei tempi, anche lui frequentava quel mondo di spiriti liberi.

Ora che Mennitti non c’è più, il torto più grande che gli si possa fare è di ricordarlo in noiose commemorazioni o, peggio, soffocarne l’originalità del pensiero in penosi conversari retorici. Se proprio lo si volesse onorare per ciò che ha effettivamente rappresentato in vita, vi sarebbe una cosa soltanto da fare: far rinascere Ideazione, riportando di nuovo un po’ di persone a riflettere e ad esporre idee. La crisi che stiamo attraversando è devastante perché essa non ha solo natura economica. Non colpisce solo gli standard di vita materiale dei cittadini. È anche crisi delle idee. Non c’è più voglia di cimentarsi a progettare il futuro. Per gli intellettuali patentati, meglio fare cassa limitandosi a commentare l’oggi, nei vari salotti televisivi. Eppure, volendo, ci sarebbe ancora una “rivoluzione liberale” lì fuori, nel mondo reale, che attende di essere compiuta. Perché non tentare, ricordando a noi stessi Domenico Mennitti per il coraggio e per la fede assoluta nella buona causa?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:01