“Viaggio” al centro del pensiero leghista

La storia della Lega Nord degli anni duemila incrocia la vicenda umana di Umberto Bossi e della malattia debilitante che lo colpisce nel marzo del 2004.

Il fatto che il leader carismatico sia stato colpito nell’integrità del corpo fisico non è questione secondaria. Nei primi anni del cammino leghista, la mimica del capo, i suoi gesti duri, a volte violenti, mirati a rappresentare un machismo radicato nel retroterra valoriale del movimento, avevano fatto da sfondo al suo progetto politico. Era, quindi, inevitabile che si ricorresse anche alla “mistica” del corpo fisico del leader per spiegare il fenomeno leghista.

Per i militanti valeva quel meccanismo di immedesimazione in un Bossi “ipostatizzato”, che avrebbe segnato un modo nuovo, diverso rispetto al passato, già da “Seconda Repubblica”, di intendere e interpretare la costruzione della rappresentanza democratica. Il corpo vulnerato, invece, reca lo stigma della sofferenza dell’uomo che si fonde con il sentire del suo popolo in un rapporto esclusivo, non scalfibile dalla volontà o dai calcoli di convenienza degli altri esponenti di contorno della dirigenza leghista. Maroni, Calderoli, Castelli e compagni non avrebbero neanche lontanamente pensato di liquidare il capo con un putsch, come invece avevano fatto nel maggio del 1988, senza alcun imbarazzo morale, i giovani comunisti Occhetto, D’Alema e Veltroni, “dimissionando” dalla segreteria del Partito Comunista Italiano il debole Alessandro Natta, direttamente dalla stanza dell’ospedale in cui era ricoverato per un lieve infarto. La base gli si sarebbe rivoltata contro. Tuttavia, la necessità di conservare integra l’immagine sacrale del capo reca una pesante controindicazione: essa attiva, sulla lunga distanza, un meccanismo distruttivo del fattore carismatico. Cosa accade? Viene steso un cordone di sicurezza intorno al leader per proteggerlo, almeno negli intendimenti iniziali, dagli eccessi della lotta politica. Il filtro posto alla comunicazione diretta tra il capo e la base diventa lo strumento mediante il quale condizionarne la volontà.

La vulgata mediatica, per eccitare l’immaginario dell’opinione pubblica, definisce “cerchio magico” l’insieme di persone, familiari e amici, che gestisce di fatto la vita pubblica e privata di Bossi. L’azione nefasta che questo gruppo avrebbe esercitato sul leader, a cominciare dagli anni dell’opposizione al secondo Governo Prodi, farà capolino in tutte le analisi sul crollo di consensi alla Lega. Inoltre, il teorema del cerchio magico insediato nella cabina di comando alle spalle di un Bossi “marionetta” servirà, nella fase di elaborazione della sconfitta, ai contendenti interni per scaricare le responsabilità complessive del fallimento dell’azione politica del partito sulle spalle di un solo facile capro espiatorio, sebbene questo ne abbia dato ampio motivo. Sarà un bel modo di nascondere tutta la polvere sotto il tappeto.

La brusca interruzione dell’esperienza del Governo Berlusconi, nel 2011, si ripercuote inevitabilmente sugli assetti interni della Lega. In realtà, l’eclissi della leadership bossiana trae origine dal mancato conseguimento dell’obiettivo primario che il movimento si era dato all’indomani della cancellazione della riforma costituzionale dello Stato in senso federalista. Non potendo contare su una rapida trasformazione dell’architettura istituzionale, la dirigenza leghista si era indirizzata verso la battaglia per la redistribuzione delle risorse di finanza pubblica sulla base dell’effettivo gettito fiscale prodotto dai territori. Dopo lo smacco del 2006 erano state riformulate anche le parole d’ordine del movimento a sostegno della nuova correzione tattica. “I nostri soldi a casa nostra”, “Padroni a casa nostra”, sono alcuni degli slogan che accompagnano il tentativo di revisione della fiscalità in senso federalista.

Gli uomini della Lega al Governo, nell’intento di approdare a una riforma condivisa, si convincono della necessità di rallentare l’iter del processo normativo per ricercare l’accordo con le forze di opposizione. In effetti, il tentativo ha successo. Vi è la condivisione bipartisan della legge delega n. 42/2009 (voto favorevole della coalizione di maggioranza, astensione del Pd, voto contrario dell’Udc). La legge assegna al Governo il compito di emanare “entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore”, cioè entro il 21 maggio 2011, “uno o più decreti legislativi” (art. 2 c.1) per dare attuazione all’art. 119 della Costituzione, oltre a concedere due anni di tempo per l’adozione di decreti legislativi correttivi e integrativi.

Fissata la cornice, toccava all’Esecutivo collocare i contenuti. Cosa che nel tempo trascorso fino al novembre del 2011 è stato parzialmente fatto. Ma non è bastato. La caduta del Governo Berlusconi, sostituito, grazie a un colpo di mano dei “poteri forti” nostrani ed europei, dal ”commissario” Monti, congela il processo di superamento del sistema di finanza derivata correlato a una maggiore autonomia di entrata e di spesa degli enti decentrati. Questa è la ragione principale che innesca la crisi della Lega e della sua leadership. Le inchieste giudiziarie porteranno, soltanto dopo, a scoprire la “mala gestio” dei fondi accumulati dalla Lega Nord grazie al sistema dei rimborsi elettorali. Tuttavia, gli investimenti in Tanzania, fatti del tesoriere del partito, i soldi intascati dal “Trota”, figlio ed erede politico del capo assoluto, i diamanti di Rosy Mauro e il potere d’interdizione di Belsito e degli adepti del “cerchio magico”, asserragliati nel bunker di via Bellerio, a prescindere dalla loro rilevanza penale, restano pur sempre meri sintomi della crisi e in alcun modo possono essere confusi con le cause reali del tracollo.

Nella tornata del febbraio 2013, la Lega dimezza il proprio consenso rispetto alla precedente elezione del 2008. I dati sono drammatici. Solo alla Camera perde 1.634.366 voti, scendendo in percentuale dal 8,30 del 2008 al 4,08 del 2013. Neanche la separazione da Forza Italia e la decisione di essere all’opposizione del Governo Monti, restituiscono credibilità e consenso al partito che già non è più di Bossi. Dopo la caduta del Governo Berlusconi e lo scoppio dello scandalo sulla gestione dei fondi, la seconda punta Roberto Maroni rompe gli indugi provocando un’escalation interna al partito che determinerà, nell’aprile del 2012, le dimissioni del capo storico dalla segreteria federale. Dopo una breve transizione gestita da un triumvirato, al congresso federale del 30 giugno-1 luglio 2012, Maroni diviene segretario federale chiedendo la fiducia ai militanti su un programma di rigoroso riassetto morale delle strutture interne. La svolta proposta dallo storico alter ego di Bossi punta sul rinnovamento totale della classe dirigente del partito. Maroni, intanto, ha creato un gruppo organizzato per affrontare la sfida congressuale contro la vecchia guardia determinata a resistere. La corrente è denominata “i barbari sognanti”. Non si tratta di lapsus freudiano. È il tentativo, in realtà molto debole, di invocare una palingenesi che restituisca il movimento agli ideali delle origini. Tradotta, l’espressione suona pressappoco così: “Giovani non inquadrabili negli schemi convenzionali della politica che hanno voglia di affidarsi a un’utopia”. Quale? “L’indipendenza del Nord”, è chiaro!

Il fatto è che Maroni non ha il carattere carismatico del suo amico e sodale Umberto Bossi. È uomo di mediazione più che di rottura. Inoltre, per quanto sia persona perbene, universalmente stimata, non può spacciarsi per il nuovo che avanza. Trent’anni di vita, e oltre, spesi a fianco del capo, non possono essere dimenticati. Nella vena giustizialista del popolo leghista riecheggia l’ambigua teoria del “non poteva non sapere”. Per questa ragione anche Bobo Maroni è destinato a essere una figura di transizione che prepara il terreno alla vera novità. Dopo aver fatto il lavoro sporco di spazzare via con la ramazza, presa a simbolo del nuovo corso, i responsabili del decadimento morale della vecchia Lega, Maroni indica il suo successore alla guida del partito.

È Matteo Salvini, un quarantenne dalla faccia del giovanotto ruspante, che viene dalla gavetta e sa parlare alla gente. Ma per diventare un vero leader anche l’arrembante Salvini deve affrontare la prova iniziatica del parricidio rituale. Il 7 dicembre 2013, Salvini sfida alle primarie per la segreteria federale della Lega Nord un Bossi “kamikaze”. Vince ottenendo 8162 preferenze, pari all’82% dei voti espressi. Il vecchio leone battuto viene giubilato dalla guida del movimento per essere relegato nell’empireo vivente delle cariche onorarie. Cala un sipario mentre un altro se ne apre. (fine terza parte)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:11