“Viaggio” al centro del pensiero leghista

Cos’hanno in comune un cappio e una spigola? Pressappoco vent’anni di leghismo padano. È il tempo che corre tra la minaccia del cappio fatto oscillare, nel 1993, nell’aula della Camera dei deputati, dall’onorevole Luca Leoni Orsenigo contro i “corrotti della Prima Repubblica”, e l’esibizione della spigola, agitata di recente nella stessa aula dagli stessi banchi parlamentari da un altro onorevole leghista: Gianluca Buonanno, in segno di invito alla “lobby dell’accoglienza” a preoccuparsi dei nostri poveri piuttosto che degli immigrati clandestini che la “pasdaran” Boldrini vorrebbe ospitare negli alberghi a 5 stelle. Tra questi due atti, ugualmente rozzi e provocatori, prende corpo il segmento più importante della storia della Lega Nord che incrocia l’altra storia, quella della cosiddetta “Seconda Repubblica”, riflettendone specularmente luci e ombre. Ma quanto ha inciso, nella vita del Paese, la presenza della Lega?

Non v’è dubbio che il partito abbia incarnato un modello politico molto dinamico. La Lega nel corso del tempo ha cambiato più volte pelle, modificando le parole d’ordine e adattando gli schemi operativi alle convenienze della contingenza. La sua governance si è distinta per la spiccata attitudine al posizionamento tattico, peccando notevolmente nella capacità di definire un orizzonte strategico solido al quale vocare il progetto politico. L’unica eccezione di rilievo è stata, nei primi anni Novanta, la partecipazione al movimento di Gianfranco Miglio, intellettuale di razza dalla vista lunga. La sua presenza in campo ha fatto compiere alla Lega un importante passo avanti, trasformando l’espressione di un generico quanto confuso secessionismo “padano” nell’individuazione di un processo consensuale di destrutturazione dello Stato centrale.

Per Miglio la fonte metagiuridica che legittima la mutazione dell’entità centrale, prima indivisibile, in tre macroaree territoriali è il “foedus”: il patto. Più attori territoriali si accordano affinché, una volta ricomposte sulla base di autonome regolazioni normative le articolazioni macro-regionali, si concorra di comune accordo a formare un’entità statuale sovraordinata di tipo federale, dotata di specifici poteri sovrani. Prende corpo, nell’orizzonte politico del movimento, un progetto che consente di individuare con certezza il perimetro della nuova proiezione statuale immaginata dai leghisti, la cui scaturigine è di fonte pattizia e non più violenta. La fantasiosa immagine della “Padania” si riconfigura nello schema della macroregione del Nord che copre la parte settentrionale del Paese da Ovest a Est. Miglio è un seguace ideale di Carlo Cattaneo. Nel suo progetto si materializza la separazione del concetto di Stato da quello di nazione. Uno Stato federale, per Miglio, può contenere e assorbire differenti identità nazionali: da quella padana a quella dell’Etruria, alla civiltà mediterranea. Tuttavia, egli è anche seguace di Carl Schmitt per cui, nella sua ricostruzione del vertice federale non fa mancare la presenza del fattore “decisionista” tra gli elementi caratterizzanti la “testa”del nuovo soggetto istituzionale.

L’apporto di pensiero di Miglio alla Lega consente a quest’ultima di concedersi a una visione del destino della propria missione altamente motivante per dirigenti, iscritti e simpatizzanti del movimento. Inoltre, la sua intuizione possiede il dono, non frequente in politica, di costituire un progetto organico concretamente applicabile. La presenza all’interno del partito, però, è stata troppo breve perché le sue idee potessero sedimentare nella base dei militanti e nei quadri dirigenti quel senso di profondità della prospettiva strategica orientata a costruire un’egenonia non più di classe, ma di popolo e territorio. Il rapporto dell’intellettuale con Bossi e i suoi s’interrompe bruscamente nel ‘94 per insanabili contrasti con la leadership che accettava, sbagliando secondo Miglio, l’alleanza elettorale con Forza Italia, movimento politico portatore di valori distanti da quelli leghisti. Per inciso, vale ricordare che se Bossi in quel periodo dialogava con Miglio, altrettanto faceva Berlusconi, passando le serate a discutere con intellettuali del calibro di Lucio Colletti, Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa, Marcello Pera e Giuliano Urbani. Ci si faccia passare un commento su quel centrodestra nascente: “Che tempi, erano quelli lì!”. Ricordarlo a poche ore della scomparsa di Domenico Mennitti, forse potrebbe avere un significato didascalico.

Comunque, andando indietro con lo sguardo, è possibile individuare almeno due grandi fasi che tagliano di netto la vicenda leghista, incidendo nella sua natura fondamentale. Si può distinguere una prima fase, classificabile come “movimentista” da una successiva, che si produce per partenogenesi, propriamente di incardinamento nella logica di regime. La scissura tra i due “momenti” potrebbe essere collocata all’inzio di questo millennio. Fino alla fine degli anni Novanta, la Lega non si discosta dallo spirito delle origini di cui, seppure con qualche incertezza e non poche contraddizioni, mantiene integre le motivazioni e gli obiettivi di fondo della proposta politica. Con il successo elettorale, a fianco dell’alleato Berlusconi, nella primavera del 2001, si assiste a un graduale processo di calcificazione della struttura-partito. Da soggetto collettivo di contrasto al sistema, caratterizzante la fase movimentista e iconoclasta di “Roma ladrona!”, si trasforma in forza organica alle meccaniche di potere dei ceti dominanti. La differenza netta tra i “due momenti” è rilevabile anche ad occhio nudo. La prima fase si caratterizza per gli slogan di protesta-limite contro il potere “romano”.

Gli anni Novanta sono quelli segnati dall’ostensione della “canottiera di Bossi”, immagine simbolo e di culto per marcare una diversità ontologica del leghismo dal “politically correct”. Sono anche gli anni delle battaglie, come quella contro il finanziamento ai partiti, che generano una nuova etica pubblica padana, della quale prima non si aveva contezza. Conclusa la parentesi Miglio, la Lega ritorna ai suoi argomenti totemici: la secessione da Roma e l’indipendentismo padano. Viene archiviata con estrema rapidità la parentesi di Governo del Primo gabinetto Berlusconi. Alla fine essa si rivelerà per ciò che è stata nella realtà: un’esperienza vissuta con disagio da un movimento acerbo, perché non compresa nelle sue valenze prospettiche e, dunque, abortita prematuramente.

Per marcare il preteso divario ontologico che separerebbe la Lega dal resto della politica convenzionale, il movimento si dota, negli anni Novanta, di un impianto simbologico-iniziatico che vorrebbe richiamare, all’immaginario collettivo delle proprie “genti”, pulsioni ancestrali. Il corpo fisico del capo richiama la natura virile del movimento, fecondatrice della sottostante società civile. La bandiera con il “Sole delle Alpi” rimanda ai miti della tradizione polare sulla centralità dell’astro più luminoso. Nasce la festa dei popoli padani con il rito dell’ampolla contenente l’acqua del “sacro Po”. Si tratta di suggestioni di origini pagane, funzionali a connettere il vissuto storico della Lega a un mitico passato celtico. L’obiettivo è una riscrittura della mappa genetica del popolo di cui il movimento politico incarnerebbe soltanto una temporanea espressione. S’identifica nell’epifania delle “camicie verdi” la ricomposizione identitaria di una immaginifica “nazione padana”. Si tratteggia un abbozzo di estetica leghista che vorrebbe essere un prodromo nella riconfigurazione su basi razziali del fenotipo padano. Si organizzano concorsi di bellezza per eleggere “Miss Padania”, dove la forzata ricerca del riconoscimento “in natura” di un profilo ideale di femminilità autoctona incrocia la causa della pretesa di un fondamento etnico alla proclamata “diversità” del nord rispetto al resto d’Italia. Anche la scelta dell’inno personifica lo spirito fondante il pensiero leghista. Durante le adunate, nei luoghi della storia dell’indipendentismo del Nord come Pontida, si intona in coro il “Va’ pensiero” verdiano. Poco conta che nell’opera lirica, da cui l’armonia è tratta, si parli di Ebrei che dalla cattività babilonese invocano la patria lontana. Non importa che si canti “Del Giordano le rive saluta, Di Sionne le torri atterrate...”. Ai leghisti stanziali sta bene così, anche di invocare una patria lontana che in realtà è sotto i loro stessi piedi. Tra “celodurismo” di ritorno e atmosfere simil-vagneriane tramonta il secolo e con esso tramonta la Lega di lotta e di protesta. (fine prima parte)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:02