La fenomenologia del femminicidio (2)

Il termine Femminicidio è un neologismo che è stato ampiamente utilizzato per definire la strage delle donne di Ciudad Juarez (Messico), in atto dai primi anni ‘90, e indica quindi la violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale, rivolta contro la donna “in quanto donna”.

Ciudad Juarez è una grossa città messicana posta lungo il confine con gli Usa nello stato del Chihuahua. In questa città di quasi un milione e mezzo di abitanti, migliaia di donne povere giungono dal sud del Paese per lavorare nelle maquilladoras, fabbriche di trasformazione e assemblaggio a capitale straniero moltiplicatesi in Stati Uniti e Messico con lo scopo di sfruttare il lavoro a basso costo dei migranti e le agevolazioni fiscali delle zone franche. A Ciudad Juarez, dal 1993 ad oggi, circa 600 donne (di età compresa tra i 6 e i 25 anni) sono state trovate massacrate nei campi intorno alla città e almeno 3mila sono scomparse (molte di loro sono presumibilmente morte). La prima vittima è stata una bambina e si chiamava Alma Chavira Farel, fu ritrovata nel gennaio del 1993. I corpi femminili ritrovati portano tracce di orribili mutilazioni, violenze sessuali, torture e nefandezze di ogni genere.

Il termine femminicidio è più che appropriato per definire questo massacro, che vede probabilmente coinvolte le forze di polizia (quanto meno complici per la loro indifferenza) e le alte sfere istituzionali messicane. “È dal 1994 che hanno cominciato ad apparire nel deserto cadaveri di ragazze, mutilati e seviziati. Il Centro de Asesoría de las Mujeres ha cominciato ad investigare. Le ragazze erano tutte molto simili fisicamente e provenivano da famiglie povere; in genere erano impiegate nelle maquilas. Non venivano uccise il giorno del loro sequestro ma erano tenute in ostaggio, violentate e torturate prima di essere uccise. Abbiamo immediatamente fatto un collegamento tra gli omicidi e la natura povera e violenta della città, propria delle realtà di frontiera. Su 1.500.000 abitanti 800mila sono immigrati, messicani e latinoamericani in generale, che si affollano sul confine aspettando l’occasione per entrare negli Stati Uniti. Quelli che non riescono a passare la frontiera si fermano qui, nelle periferie più povere e, se ci riescono, cominciano a lavorare nelle maquilas. Ma il conflitto sociale e di genere è molto forte perché le imprese tendono a contrattare sempre più manodopera femminile che è meno costosa e quindi, a fronte delle conquiste economiche e sociali delle donne, c’è un universo maschile sempre più destabilizzato, povero e dipendente. È in questo panorama che sono cominciati gli assassinii”.

Tutti coloro che hanno provato a fermare questo massacro sono stati minacciati o uccisi. Il 77% dei crimini resta impunito. Le madri, i familiari e gli amici si sono raggruppati nella NHRC (“Nuestras Hijas de Regreso a Casa” – “La nostre figlie devono rientrare a casa”). L’obiettivo è quello di attirare l’attenzione sulla situazione di Juárez, di esercitare pressioni sul governo e l’opinione pubblica per scoprire la verità su questi orribili fatti. I membri del gruppo sono ugualmente vittime di minacce a causa della loro attività.

La vicenda di Luca Delfino: presunto duplice femminicidio di ex

A Sanremo, provincia di Imperia, una donna di 33 anni, Maria Antonietta Multari, è stata accoltellata e uccisa dall’ex fidanzato. L’uomo, che l’ha aggredita per motivi passionali, è già stato arrestato dalla polizia e ora si trova in commissariato, a disposizione del pubblico ministero Vittore Ferraro. È stato bloccato quando in mano aveva ancora il coltello a serramanico sporco di sangue. Si tratta di Luca Delfino, sulla trentina, indiziato per un celebre delitto avvenuto a Genova a fine aprile 2006, quello di Luciana Biggi ex fidanzata proprio di Delfino, che era stato a lungo indagato, ma mai inchiodato dagli inquirenti del capoluogo ligure. La vittima lavorava come commessa a Vallecrosia, nell’Imperiese; è stata aggredita alle spalle mentre passeggiava con un’amica in via Volta, a poche centinaia di metri dal centro. Stava andando in un istituto di estetica, quando Delfino ha raggiunto Sanremo con un motorino rubato e ha affrontato la vittima colpendola con numerose coltellate alla gola e al petto. La ragazza ha cercato di difendersi, ha invocato aiuto, ma la rabbia dell’uomo ha avuto il sopravvento. Maria Antonietta Multari aveva lasciato Delfino da qualche mese, dietro le insistenze dei suoi genitori. Gli episodi di violenza non erano mancati.

Nel gennaio scorso l’uomo era stato denunciato per minacce, percosse, violenza privata e molestie dalla madre di lei. Ma lui continuava a dire di amare Maria Antonietta, continuava a ripetere di “non poter vivere senza di lei”. Delfino è anche il principale indiziato per il cosiddetto “delitto dei vicoli” di Genova, ossia l’omicidio di Luciana Biggi, sgozzata in vico San Bernardo pochi anni fa. L’indagine condotta dalla Squadra Mobile, secondo la Procura, non conteneva elementi sufficienti per rinviare a giudizio l’ex compagno della vittima. “Una personalità disturbata, un uomo socialmente pericoloso”: questa la definizione data di lui dagli investigatori genovesi. Al pm, Enrico Zucca, fu presentata “una marea di indizi” a carico di Delfino, come dice il capo della mobile, Claudio Sanfilippo, ma mai prove concrete di colpevolezza, “la pistola fumante”, come lui stesso la definisce. Anche se, insiste l’investigatore, “gli elementi per metterlo in carcere c’erano tutti”.

L’indagato ha sempre ammesso di avere passato quella serata finita in tragedia insieme alla donna, ma ha ostinatamente negato di averla assassinata: “L’ho lasciata pochi minuti prima che venisse uccisa”. Certo, gli indizi a suo carico erano molti: non ha un alibi per i minuti in cui è avvenuto il delitto, è stato l’ultimo a vedere Luciana viva, l’hanno visto mentre litigava con lei prima del delitto, la mattina successiva si è tagliato barba e capelli e non si è presentato alla polizia quando ha appreso del delitto. Non solo: sarebbe proprio lui il responsabile di una misteriosa esplosione provocata dal gas che poteva uccidere Luciana nella sua abitazione di Rivarolo, qualche tempo prima dell’omicidio. Mancava però la prova. Il procuratore capo di Genova Francesco Lalla, dopo l’arresto di Delfino, ha spiegato che “per il delitto avvenuto a Genova c’erano elementi che potevano far pensare a lui, ma non prove sufficienti e convincenti per chiedere una misura cautelare”.

Femminicidio nel jet set italiano. Caso Jucker

La mattina del giorno in cui truciderà la sua fidanzata facendone a pezzi il corpo, Ruggero Jucker si sveglia di buonora. Cose da fare, in effetti, ne ha parecchie. Prima di tutto va dallo psichiatra con cui la madre gli ha combinato un altro appuntamento. Il dottor Antonio Vita è uno di famiglia: lo conosce da sempre e ha in cura anche suo padre per la depressione. Alle 8.30 Jucker arriva nello studio del medico, ben vestito e lavato di fresco. Si mostra disponibile, anche se a Vita dà l'impressione di voler ricacciarsi al più presto nella sua abitudinarietà: come se fosse andato a quella visita più per non far dispiacere alla madre che per convinzione personale. Si siede sulla comoda seggiola dello studio e ammette che, sì, quello è un periodo un po’ difficile. Spiega di essere molto stressato, specie per l’organizzazione dell’evento della Vodafone. Niente di grave, sostiene, ma gli sembra che quei manager vogliano imporre le loro decisioni.

Al dottore non sembra certo di avere davanti un caso clinico disperato. “È solo un piccolo esaurimento”, gli dice. “Prendi qualche calmante e cerca di dormire”. Gli prescrive due farmaci. La stessa mattina, quando l’imprenditore arriva nella sua zupperia, è già molto agitato. Va a pranzo in un ristorante di via Eustachi, nella zona est della città, con un amico. È passata solo qualche ora dalla visita in cui al medico è parso sereno e rilassato, ma sembra già un altro. Dice cose senza senso. Divaga. L’amico si informa sulle sue condizioni di salute. Lui, concitato, gli risponde: “Sto meglio! Ho visto arancio, ho capito, sto meglio!”.

Quel giorno Ruggero lavora fino a tardi, nonostante l’idea non gli piaccia per niente. Deve tradurre in inglese il progetto per la Vodafone. Termina poco prima delle 20 e manda i fogli via fax. Esce e si dirige verso un ristorante in via Sottocorno, dove ha un appuntamento con il padre e il fratello. Quando finiscono di mangiare, i fratelli accompagnano il padre a casa, poi vanno nell’appartamento di viale Premuda, dove Dario deve dormire. Sono le 22.10: Ruggero chiama al telefono Alenya. Le conferma che, come concordato, avrebbero passato la notte insieme, in via Corridoni. “Vengo a prenderti io”, le dice prima di riattaccare. Saluta il fratello ed esce in strada. Arriva sotto il palazzo di Alenya e aspetta che lei scenda. Poi insieme si incamminano verso via Corridoni, che dista qualche minuto a piedi. Durante il tragitto Alenya gli chiede del lavoro e lui le racconta del ricevimento per la Vodafone.

Quell’incarico lo ha gettato in piena crisi: le dice del significato “sinistro” che attribuisce all’unione commerciale tra la compagnia telefonica e la Ferrari. Prende il cellulare, lo spegne e mostra lo schermo ad Alenya. La ragazza osserva il display. Ruggero riaccende il cellulare e compare il logo, che gli sembra “un bambino rinchiuso in una specie di mondo”. Anche Alenya, riferirà Ruggero al giudice Gamacchio, gli parla di un bambino immaginario. Sua madre ha sognato che lei sarebbe rimasta incinta. Forse in quel sogno c’era pure un matrimonio. Un matrimonio come quello per cui lui deve lavorare tanto malvolentieri, quello tra la Vodafone e la Ferrari. Un’unione, dei progetti, una vita insieme. Magari proprio nella casa di via Melzo che lui sta ristrutturando. Ruggero immagina, ipotizzeranno gli psichiatri, che quel cerchio che mostra a tutti sullo schermo si stia stringendo attorno a lui. Forse pensa che la sua vita stia cambiando e che debba cominciare ad assumersi degli impegni. Si sente minacciato: da una parte c’è sua madre, l’eterna figura di riferimento; dall’altra c’è Alenya, che vorrebbe diventarlo.

La ragazza è esasperata, non ne può più del disinteresse che Ruggero ha per lei. Pensa di lasciarlo, per lo meno secondo le testimonianze raccolte nel processo. La coppia entra nell’appartamento al piano rialzato di via Corridoni intorno alle 22.45. La follia di Ruggero Jucker comincia in un imprecisato orario dopo l’una di notte. Racconterà di aver sentito un forte malessere fisico e psichico. Si alza dal letto, agitato. Non sta fermo un attimo. Alenya si sveglia e cerca di rasserenarlo, ma l’uomo non ragiona più. È ingovernabile e comincia a urlare. Lei capisce che la situazione sta degenerando. Dopo aver cercato di raggiungere il telefono, si rifugia in bagno. Lui va in cucina, a cercare l’arma del delitto. Vede i 27 coltelli, ognuno al suo posto. Invece apre un cassetto, dove c’è una scatola di cartone dentro cui è custodito un pezzo speciale: un coltello da sushi mai usato che un amico gli ha portato recentemente da un viaggio in Giappone. Ha il manico istoriato con ideogrammi e una lama affilatissima lunga una ventina di centimetri. Ruggero scarta nervosamente la confezione, impugna l’arma e va verso il bagno. Alenya tenta di non farlo entrare, ma a lui basta spingere con forza per varcare la soglia e scagliarsi contro di lei. La prima coltellata raggiunge la fidanzata alle spalle. La ragazza cade. Mentre prova a difendersi, lui continua a massacrarla. Sugli avambracci e la mano destra di Alenya verranno trovati tagli che si è procurata cercando di proteggersi. La colpisce al cuore, a un polmone: lei è a terra, moribonda, il corpo devastato. Non è ancora morta quando il compagno comincia a dissezionarla. Le taglia il fegato, il pancreas, l’intestino. Non sono ferite inferte a caso, ma operazioni precise e macabre. Lui, ammetterà ai pubblici ministeri durante l’interrogatorio, vuole fare qualcosa di più che uccidere. Passa un lasso di tempo imprecisato. Poi l’uomo comincia a urlare come un ossesso, a gridare frasi senza senso. I vicini sentono il trambusto e chiamano la polizia, che trova l’imprenditore nudo per strada e lo arresta.

(*) Criminologa

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:04