Ma di che colore è il nuovo Governo?

Habemus papam! E l’Italia ha il suo bel Governo nuovo di zecca. Durerà? Saprà il nuovo Premier corrispondere alle tante aspettative che un originale modo di comunicare il suo non-programma ha ingenerato in un’opinione pubblica assetata di soluzioni? È presto per dirlo. Il fattore “tempo”, che in politica assume una funzione decisiva, disvelerà l’enigma. Per ora godiamoci lo spettacolo, senza però abbassare la guardia giacché la realtà in cui si cimenta il nuovo Presidente del Consiglio è incandescente e comunque prossima a raggiungere il punto di rottura. Quello che è certo è che lo stile “smart” di Renzi, combinato a una comunicazione di “superficie” volutamente scarna nei contenuti, presta il fianco agli interrogativi molto di più di quanto non avvenga in situazioni nelle quali la proposta di Governo si presenti ben strutturata. La prima domanda che viene da porre è la seguente: questo Governo che colore ha?

La questione potrebbe sembrare banale, tuttavia ha una sua logica giacché non è immediatamente riconoscibile il presupposto costitutivo che ha dato luogo al rapporto coalizionale. In effetti, la nuova amministrazione mostra delle novità, alcune ai limiti della stravaganza. Per quanto sia dato di vedere, la più significativa sta proprio nel delinearne la precisa collocazione politica, a prescindere dalla formale composizione del quadro complessivo delle alleanze. Questo Esecutivo è nei fatti un monocolore renziano. La presenza di personaggi organici ad altre formazioni partitiche non rileva ai fini della tanto reclamizzata configurazione di un Governo delle cosiddette larghe intese e neppure di un più tradizionale Governo di coalizione. L’abilità di Renzi ha fatto aggio sullo scarso peso specifico del suo maggiore interlocutore intragovernativo: il leader del Nuovo Centrodestra. Alfano è caduto nella trappola tesagli come un qualunque “pesce di cannuccia” (così dalle nostre parti definiamo quei pescetti tanto inavveduti da abboccare all’amo senza che vi sia neanche l’esca). Il fatto che Renzi gli abbia posto, in termini di aut-aut, la scelta tra uno solo dei possibili incarichi, cioè vicepremier o ministro degli Interni, ha determinato un automatico declassamento dalla funzione coattoriale che la forza politica di centrodestra aveva avuto nel corso dell’esperienza del Governo Letta, in particolare dal momento della rottura politica intervenuta con il partito di Berlusconi.

Se Alfano avesse avuto vera stoffa avrebbe dovuto comprendere che la cifra politica del nuovo Governo sarebbe stata connotata dalla compartecipazione alla guida dell’Esecutivo del leader del Nuovo Centrodestra. Per ottenere questo fondamentale risultato avrebbe dovuto rinunciare, se necessario, a qualsiasi altro incarico per sé e per i suoi ma pretendere il riconoscimento della pari dignità attraverso l’attribuzione del vicepremierato. Così non è andata, forse perché, come sostengono i maligni parafrasando il mitico De André: “Più dell’onor potè il digiuno” e per scollare i propri colleghi giunti alle poltrone ministeriali non sarebbe bastato il più potente dei solventi.

Così oggi, Angelino Alfano, è uno dei sedici e neppure il più importante tra loro. Inoltre, l’assenza di un programma concordato cancella la caratterizzazione nel senso delle larghe intese del nuovo gabinetto. Alfano è riuscito soltanto a emettere qualche balbettio negoziale su un’ipotetica contrarietà a programmi di ipertassazione dei patrimoni e su questioni di costume etico, come i matrimoni gay. Si vedrà al momento del passaggio in Parlamento di provvedimenti indigesti all’ala cosiddetta cattolico-moderata come si comporterà il Nuovo Centrodestra. Comunque, a costoro non è stato accordato l’onore della sottroscizione di un accordo preventivo mentre, alla pretesa di bloccare la strada delle riforme strutturali condivise con Forza Italia, Alfano si è visto opporre da Renzi un categorico rifiuto. Nel carniere del leader di Ncd resta soltanto una generica promessa sulla durata quadriennale della legislatura, garantita dall’ipotesi di agganciamento della riforma elettorale a quella costituzionale, e perciò più complessa, dell’abolizione del Senato. Si tratta però di una promessa che ha il valore che hanno tutte le promesse fatte in politica. Dunque, la realtà ci restituisce un quadro dal quale si desume che Renzi abbia contrattato l’acquisizione di un gruppo di voti utili alla composizione della maggioranza di sostegno al suo Governo, pagando un corrispettivo valutabile nella concessione di tre incarichi ministeriali, a cui seguirà l’attribuzione di alcune poltrone sottosegretariali. Questa immagine plastica archivia la pratica Ncd.

Per quanto riguarda le altre microformazioni, i cosiddetti cespugli, per l’Udc di Casini è valsa la stessa logica adoperata con il Ncd, sebbene su scala ridotta vista la scarsa consistenza della sua forza parlamentare: appoggio in cambio di un dicastero non di prima fascia. Per i Popolari per l’Italia di Mario Mauro e Andrea Oliviero, nati dalla scissione del gruppo che fu di Monti, per il momento non c’è stato spazio. Il loro tentativo era di dare vita a un esperimento, in sé anche nobile, che producesse la sintesi tra alcune delle differenti anime del comunitarismo cattolico, in particolare del movimento delle Acli e quello di una parte di Comunione e Liberazione, giacché un’altra ala è stazionata nel Nuovo Centrodestra. La mancata presenza nella compagine ministeriale della nuova formazione stride con la visibilità concessa alla componente di sinistra, già comunista, radicata nella cosiddetta economia del sociale. Non vi è dubbio che la nomina allo strategico dicastero del Lavoro e delle Politiche sociali di Giuliano Poletti, presidente nazionale della Lega delle Cooperative, conferisca a quest’ultima realtà un considerevole vantaggio. Tuttavia, tale scelta è destinata a provocare scossoni all’interno dei precari equilibri che governano il “mondo alieno” del Terzo Settore. Ciò spiegherebbe la difficoltà per i rappresentanti della nuova formazione ad appoggiare acriticamente il nuovo Governo senza chiedere, in cambio, solide contropartite. È dunque probabile che la negoziazione per un vice-ministero di prestigio e una o due poltrone tra i sottosegretari, magari da collocare in ruoli che abbiano diretto contatto con le problematiche del No Profit, potrebbe riequilibrare lo scompenso determinatosi a seguito della nomina di Poletti a ministro e ricondurre a una ricucitura con i Popolari per l’Italia.

Per Scelta Civica, invece, la questione è stata leggermente diversa. In effetti, il piccolo raggruppamento ha ottenuto un seggio in Consiglio dei Ministri. Tuttavia, per questa formazione, almeno quello che ne resta dopo la scissione provocata dalla componente cattolica del movimento, non è valso il criterio della sinallagmaticità del rapporto, cioè il classico “do-ut-des”. Il micromovimento d’ispirazione montiana, privato della spinta propulsiva data dalla presenza effettiva del suo padre-fondatore, si è ritagliato un ruolo satellitare nell’orbita planetaria del Partito Democratico, candidandosi anche per il futuro a coprire uno spazio politico molto simile a quello svolto, negli anni Sessanta, dal Psiup, il minuscolo partito Socialista di Unità Proletaria nato nel 1964 dalla fuoriuscita dei cosiddetti “carristi” dal Psi e cancellato in una sola terribile notte elettorale nel lontano 1972, e poi, negli anni Settanta-Ottanta, dal gruppo della Sinistra Indipendente, rispetto al Pci.

In realtà, nella strategia di tutti i partiticComunisti, vi è sempre stata la predilezione a servirsi di strutture fiancheggiatrici per estendere i confini del proprio blocco sociale di riferimento. Sembra chiaro che anche Renzi, che comunista non è, non disdegni affatto di adottare la medesima tattica di distribuzione del consenso su differenti soggetti solo in apparenza autonomi, ma sotterraneamente legati tutti dalla malta cementizia della leadership carismatica. Se ne ricava che l’assegnazione del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca scientifica al segretario di Scelta Civica, Stefania Giannini, nella vita esperta glottologa, nella sostanza afferisca totalmente alla sfera d’influenza renziana. Per quanto riguarda gli altri ectoplasmi parlamentari chiamati a completare il perimetro della maggioranza di Governo, quali il Centro Democratico di Bruno Tabacci e il Partito Socialista di Riccardo Nencini, si presume che entreranno in gioco per la riscossione del “premio fedeltà” all’atto della composizione della squadra dei sottosegretari. Non dissimile è la sorte toccata alle componenti interne al Partito Democratico, a cui l’astuto Renzi ha concesso una sorta di “diritto di tribuna” con l’assegnazione di poltrone ministeriali a elementi scelti in base alle correnti di provenienza: dalemiani, bersaniani, franceschiniani. A tutti loro Renzi ha riconosciuto l’opportunità di rendersi visibili presso l’opinione pubblica, ma non ha consentito che le politiche di cui essi sono ordinariamente portatori trovassero autonoma collocazione all’interno dell’azione di Governo.

Nella giovane storia della cosiddetta Seconda Repubblica è invalso l’uso, soprattutto presso i media, di chiedersi all’indomani della costituzione di un nuovo Governo chi abbia la “golden share”. Per i lettori meno avvertiti circa le cose della politica, la golden share è quello strumento che consente al suo possessore, in genere lo Stato, di esercitare, indipendentemente dal numero di azioni possedute, un potere sulle scelte strategiche di un’impresa. Nel linguaggio figurato della politica la golden share sul Governo la detiene chi può concretamente condizionarne i comportamenti. Nel caso Renzi, chi può vantare questo potere? Alla luce della nostra analisi certamente non saranno i partiti minori ad avere l’ultima parola. E neppure gli stessi compagni di partito dell’ex sindaco di Firenze, visti i risultati conseguiti dal neo segretario nelle ultime direzioni nazionali del Pd. Allora chi?

I sospetti convergono verso un’unica direzione, quella dell’inquilino di Palazzo Grazioli. Gli elogi berlusconiani a Renzi, il credito di fiducia concessogli sulla questione delle riforme strutturali, la sbandierata decisione di Forza Italia di fare un’opposizione costruttiva e non pregiudiziale, lasciano pensare che tra i due leader vi sia qualcosa di più di un gentlemen’s agreement sulla riforma dell’architettura istituzionale dello Stato, a partire dalla riformulazione della legge elettorale. Tra i due si scorge, in controluce, un feeling destinato a produrre effetti nei mesi e negli anni che verranno. Che è ciò che chiede la pragmatica Europa: un’autentica, sostanziale, concordia nazionale che possa facilitare a chi governa la strada per la riforma radicale del sistema Italia. La Merkel, Hollande, Draghi e tutta l’allegra compagnia di Bruxelles, sanno perfettamente che senza Berlusconi, piaccia o no, la ristrutturazione del sistema economico produttivo e di finanza pubblica dello Stato, in Italia non si fa. Volete una prova? La scorsa settimana è stato ospite alla trasmissione condotta dalla signora Gruber, il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz. Come tutti sanno il personaggio politico tedesco si è candidato a guidare la Commissione Europea nella prossima legislatura, per cui ha iniziato un tour nelle capitali della Ue per farsi conoscere e per raccogliere consensi. Nella sua tappa italiana, stimolato da una domanda posta ad arte dalla conduttrice su Berlusconi, Schulz, che com’è noto ha un contenzioso con il leader di Forza Italia (il quale nel 2003 lo apostrofò con l’appellativo di “Kapo”), si è ben guardato dall’esprimere giudizi di sorta sul nostro ex premier preferendo fare scena muta. Sa bene Schulz che parlare male di Berlusconi oggi potrebbe costargli molto caro per le sue non celate ambizioni di carriera. E vi pare che questo sia un riguardo che si presta a qualcuno considerato politicamente morto? Quindi nessuna meraviglia se il misterioso personaggio della “golden share” fosse proprio lui, l’uomo di Arcore.

Renzi appare spavaldo e sicuro di sé. Comunica con le espressioni del volto e del corpo la sua voglia di fare e una certa tranquillità nel pensare che gli si lascerà provare quello che ha in testa. E Renzi, con la classe del consumato prestigiatore, al momento debito tirerà fuori dal cilindro il coniglio della magia. Che questa simpatica sorpresa abbia le sembianze del “cavaliere”? Il compianto Giulio Andreotti era solito dire che: “A pensar male si fa peccato, però…”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:20