Dalla parte dei marò sempre e comunque

Tutto come previsto. La Suprema Corte di Nuova Delhi ha deciso di non decidere sul caso dei nostri marò. In realtà la Corte ha fatto di meglio. Nell’interminabile partita che gli organismi giudiziari indiani stanno giocando con le autorità di governo del loro Stato, ieri l’altro hanno pensato di rilanciare la palla nel campo della politica.

In effetti, il ragionamento dell’Alta Corte è stato quanto mai semplice: “Noi riteniamo di dover processare i militari italiani applicando le norme previste per la repressione delle attività terroristiche e di pirateria, la Comunità Internazionale ha iniziato a fare pressioni perché non si proceda nella direzione tracciata, dal momento che i rapporti con gli altri Stati stanno a cuore alle autorità del governo centrale, allora che siano loro, i politici, a sbrigarsela. Siano loro a dirci cosa dobbiamo fare, se applicare o no questo benedetto “SUA Act”. Sebbene non sappiamo granché di un certo Ponzio Pilato, noi della faccenda lo stesso ci laviamo le mani”.

Morale della favola: tutto resta com’è.

Come giudicare questa ulteriore presa di posizione della magistratura indiana? Certamente va osservato che la Corte Suprema ha riconosciuto in modo implicito che la partita è squisitamente politica, in questa storiaccia la Giustizia e il Diritto non hanno avuto alcuna parte in commedia. Ciò significa che la questione vada risolta direttamente tra gli Stati interessati, cioè tra l’India e l’Italia. Se però, nei due anni trascorsi dal momento del supposto incidente, le parti non hanno saputo trovare una soluzione mediante una ragionata trattativa, è bene che la questione passi di mano e venga posta all’attenzione degli organismi internazionali deputati a giudicare in materia di contenzioso tra Stati. È l’ora, dunque, che si metta mano alla procedura per chiedere un arbitrato internazionale il quale si pronunci inappellabilmente sulla titolarità della giurisdizione riguardo all’ipotesi di accertamento di eventuali responsabilità dei fucilieri italiani nella morte di due sedicenti pescatori indiani.

I lettori si chiederanno: ma se era così chiaro che si dovesse ricorrere agli organismi internazionali, perché allora i governi che si sono succeduti alla guida del nostro Paese in questi ultimi due anni non l’hanno fatto? Giacché non posso offire un’esaustiva risposta documentale, schivo la domanda con un’altra domanda: perché da tre anni a questa parte l’Italia è sprofondata nelle graduatorie internazionali riguardo alle condizioni generali di vita dei suoi cittadini, nel grado di affidabilità delle sue istituzioni pubbliche, nel gradimento del personale politico e anche nella considerazione degli altri partner della comunità internazionale? Se questi politici fossero stati davvero capaci ci avrebbero sbarcato dove siamo adesso? Saremmo finiti comunque in quello che Renzi, con fiorentina ironia, chiama “la palude” ma che assomiglia molto a una cloaca?

Lasciamo perdere. Ritorniamo alla questione dei marò. Ora la ministra Bonino, in un improvviso sussulto che è parecchio sospetto visto che è sulla graticola per la riconferma nel prossimo Esecutivo, si dice arrabbiata e pronta a fare sfracelli. Subito dopo la decisione della Corte, ha richiamato in Patria il nostro ambasciatore a Delhi, che nel linguaggio degli addetti ai lavori significa che dovremmo essere a un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche. Appunto, dovremmo essere, perché così non è trattandosi di fumo. Urticante, accecante, puteolente fumo asperso ad arte per confondere l’opinione pubblica. Così com’è fumosa la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatore indiano in Italia per inoltrare una nota di protesta a seguito “dell’inaccettabile” comportamento delle autorità del Paese del sud dell’Asia.

Vuole la ministra Bonino fare qualcosa di veramente efficace? Inoltri formalmente all’Unione Europea la richiesta italiana di congelare l’iter di ratifica dell’accordo di libero scambio tra i Paesi dell’area Ue e l’India. Chieda la Bonino all’ineffabile signora Catherine Ashton una decisione delle autorità di Bruxelles che sospenda la partecipazione degli Stati dell’Unione Europea al programma di repressione dell’attività di pirateria nei traffici marittimi internazionali.

Sollevi la Bonino all’alleato statunitense il problema dell’inopportunità di concedere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a un Paese, l’India, che ha dimostrato di avere così scarsa considerazione del valore cogente delle norme del diritto internazionale. Per quanto riguarda noi semplici cittadini, poco o nulla possiamo fare in questa dannata vicenda. Se c’è avanzata un po’ di dignità dovremmo provare tutti a condividere la vergogna che è colata addosso all’Italia per questa assurda situazione. Ma vi pare che un Paese normale possa assistere nella più assoluta indifferenza alla supplica che i compagni d’armi di Latorre e Girone, accompagnati dai delegati del CoCer, sono andati a rivolgere al Santo Padre la scorsa domenica? Come a dire: intervenga la misericordia della vergine Maria a salvare quei due sventurati dimenticati laggiù. Come se il problema fosse l’intervento salvifico della Divina Provvidenza e non l’efficacia delle leggi in un sedicente Stato di Diritto. Vi pare ammissibile che due povere donne, segnate dal dolore ma non piegate dagli eventi, Paola Moschetti e Vania Ardito, compagna, la prima, di Massimiliano Latorre e moglie, la seconda, di Salvatore Girone, siano dovute andare a Sanremo, nella settimana delle canzonette, per avere un po’ di attenzione da parte delle autorità, per poter dire loro, prima della tenzone canora perché c’è un’altra tenzone da risolvere: quella che vede ingiustamente soccombere i diritti dei loro cari? Avrebbero forse dovuto mettere in musica anche una cosa tanto semplice che nessuno si è preoccupato di ribadirla in questi anni di silenzio: Latorre e Girone devono tornare a casa perché sono innocenti. Compreso? Sono innocenti e non ci può essere intrigo, trama, complotto o ragion di Stato che possa scardinare questa elementare verità.

Salvatore e Massimilano sono dei bravi soldati e degli ottimi professionisti. Hanno saputo affrontare con coraggio e con onore tutte le prove che un bizzarro destino ha malignamente piazzato sul loro cammino. Hanno retto bene e lo hanno fatto riuscendo a rispettare la ferrea consegna del silenzio che le autorità superiori hanno loro impartito. Se fossero stati carabinieri avremmo detto: “usi a obbedir tacendo…”. Ma sono marò, sono uomini del “San Marco”. Il loro motto “Per mare, per terram” oggi suona quasi allusivo nel delineare il carattere e il profilo umano di questi encomiabili professionisti. Come in mare così sulla terraferma, loro sanno sempre che fare. Tuttavia, la nostra opinione pubblica vorrebbe finalmente sentirli, vorrebbe che dicessero la loro, che mostrassero al mondo, con il racconto di una cronaca che è diventata storia, come un soldato italiano non sia un assassino o un terrorista, ma un individuo che sa onorare fino in fondo, con umanità e rigore, la divisa che indossa, ovunque si trovi.

Temo non lo faranno, sono troppo ligi al dovere per cedere alle pressioni di quanti come noi sperano di udire la verità dalla loro viva voce. E probabilmente non lo faranno neppure quando tutto sarà finito e di questo dramma nessuno avrà più voglia di sentir parlare. È certo, però, che se volessero fare udire le loro ragioni noi qui saremmo prontissimi a amplificarne le parole, e i gesti, come ne abbiamo esaltato i silenzi. Lo faremmo con tutto l’impegno di cui siamo capaci perché le loro ragioni possano giungere ovunque. Il più lontano possibile. Il più in alto possibile. Sarebbe per noi tutti una bella occasione di stare una volta di più dalla loro parte.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:20