Attesa snervante per la vicenda marò

L’attesa per le decisioni della Corte Suprema indiana sui capi d’accusa da contestare ai nostri marò si è fatta insostenibile. Da troppo tempo si sta giocando una partita sulla pelle di Latorre e Girone. Gli attori in campo, l’Italia e l’India, hanno sovrapposto a un’ordinaria vicenda di contrasto alla pirateria grovigli di interessi strategici, politici ed economici difficili da comprendere e ancor più da districare. Finora la partita ha visto soccombere in tutte le occasioni il nostro Paese. Le stiamo buscando che peggio non si potrebbe. Tuttavia, la situazione questa volta appare un po’ diversa. Forse, il bolide è finito tra le gambe degli indiani che avranno un bel daffare a sbrigarsela.

Di cosa si tratta? Semplice! Del fatto che, finalmente, gli organismi comunitari europei e il segretario generale delle Nazioni Unite si sono destati dallo stato letargico in cui si trovavano e hanno deciso di intervenire sulla questione dei marò. È merito delle autorità di governo italiano il prodursi di questo tardivo risveglio? Nient’affatto. Anzi, a vederla bene la faccenda è facile rendersi conto che la verità è totalmente rovesciata rispetto alle patetiche ricostruzioni dei nostri illustri governanti dimissionari. La verità è che proprio il persistente immobilismo italiano, che ha conosciuto momenti di imbarazzante remissività nei confronti delle autorità indiane, ha determinato in queste ultime il convincimento che potessero fare qualsiasi cosa nella certezza dell’assoluta irrilevanza della reazione italiana. Questa pretesa di forza ha spinto gli indiani a muoversi arbitrariamente nella ricerca della modalità più accettabile, cioè che avesse una parvenza di legittimità, per crocifiggere i nostri ragazzi inchiodandoli a delle responsabilità per la morte dei due pescatori che essi oggettivamente non hanno. Per poter conseguire il risultato desiderato le autorità indiane si sono ben presto rese conto che la strada di un giudizio ordinario li avrebbe condotte al naufragio.

Ve lo immaginate un processo dove non vi sono le prove perché preventivamente distrutte, a cominciare dal peschereccio che è stato posto in disarmo e prontamente demolito. Non vi sono più i cadaveri dei pescatori colpiti a morte perché cremati. Non vi è il verbale di un’autopsia svolta secondo le procedure che prevedono l’incidente probatorio nel caso di esami irripetibili. E il fatto che nei costumi di quel Paese vigesse la tradizione della cremazione dei cadaveri, e non dell’inumazione, avrebbe dovuto imporre alle autorità giudiziarie indiane un diverso comportamento nella conservazione delle prove in nome del garantismo e dello Stato di Diritto. Il fatto che non ci fosse neppure concordanza nella cronologia degli eventi oggetto d’indagine, giacchè, grazie a puntuali ricostruzioni giornalistiche, l’ora in cui sarebbe avvenuto il contatto tra il peschereccio pirata e la “Enrica Lexie”, dichiarata agli atti dal comandante della nave, sarebbe differente rispetto a quella denunciata dall’armatore del peschereccio coinvolto nello scontro a fuoco. Per non parlare della perizia sulle armi sequestrate ai nostri militari. E con un’indagine condotta con prevaricante superficialità e partigianeria, volete che si possa svolgere un regolare processo che non appaia agli occhi del mondo una macabra farsa?

Le autorità indiane hanno avuto tempo per maturare la consapevolezza che la storia della “Enrica Lexie” non aveva niente a che fare con l’ordinario perseguimento dei fini di giustizia. Allora, per non “mollare l’osso” che pure stava fruttando parecchio agli indiani in termini di reputazione nel delicato bilanciamento degli equilibri strategici nell’ambito della comunità internazionale, cosa hanno pensato di fare per trattenere la palla nel loro campo di gioco? Hanno pensato bene di invocare le norme per la protezione internazionale dei traffici marittimi dalla pirateria e dal terrorismo. L’applicazione del “Sua Act” avrebbe dato alla giurisdizione indiana un incredibile vantaggio: la possibilità di giudicare i nostri marò attraverso una normativa processuale che prevede l’inversione dell’onere dellla prova a carico dell’imputato. In concreto, in base alla citata legge non è più la pubblica accusa indiana a doversi prodigare per dimostrare la colpevolezza dei nostri militari, ma sono questi ultimi a dover produrre le prove della loro innocenza per ottenere l’assoluzione. Assurdo! Incredibile! Ai limiti della realtà.

Tuttavia, per nostra fortuna, il troppo è troppo anche quando si tratta di indiani. Così l’idea che si potesse creare un precedente giuridico di diritto internazionale in tema di processabilità di appartenenti alle forze armate di uno Stato sovrano impegnate in operazioni di contrasto alla pirateria marittima da parte di un qualsiasi Stato che ne rivendichi la giurisdizione, ha fatto scattare i campanelli d’allarme in tutte le principali cancellerie occidentali. Ecco perché dopo due anni di totale silenzio la Commissione Europea ha deciso d’intervenire. A chi come noi ha memoria lunga non è sfuggito il comportamento della signora Catherine Ashton, alto rappresentante alla politica europea della Ue, che oggi si precipita alle Nazioni Unite per chiedere un intervento del segretario generale, ma che fino a ieri, anche lei come tutti gli altri nostri partner europei, ha sostenuto la linea del non-intervento giudicando l’intera questione un affare interno alle relazioni bilaterali tra India e Italia. Lo stesso Ban Ki-moon, interpellato dalla nostra ministra degli Esteri, ha declinato inizialmente l’invito a intervenire. Solo successivamente ha rivisto la propria posizione quando si è reso conto che la decisione indiana di processare i marò sulla base delle norme antiterrorismo avrebbe procurato un pericolosissimo vulnus all’operatività delle forze di pace dell’Onu impegnate in compiti di repressione del crimine a livello globale.

In buona sostanza, l’immobilismo italiano ha condotto le autorità indiane a strafare, pensando di avere campo libero dopo la resa totale dell’interlocutore. Soltanto questo, e non altro, ha scosso la Comunità degli Stati spingendo i responsabili degli organismi interanzionali a intervenire. Ora, la pressione esercitata sull’India potrebbe produrre gli effetti desiderati, cioè la liberazione dei nostri militari illegittimamente trattenuti. Sebbene si tratti di una grande potenza emergente, il Paese dell’Asia meridionale deve ancora crescere, soprattutto deve fare strada nella considerazione del resto degli Stati, e per farlo ha bisogno di produrre sinergie con altre realtà. Una condizione d’isolamento internazionale non gioverebbe affatto ai suoi interessi strategici e commerciali. Vi è da dire che dopo due anni trascorsi vincendo tutte le mosse nella partita con l’Italia, il caso ha esaurito la sua carica propagandistica presso l’opinione pubblica interna. Anche nella posizione della stampa e dei media locali iniziano ad aprirsi crepe come pure nel granitico fronte giustizialista messo su in tutta fretta per sfruttare un improvviso sentimento antitaliano montato tra la popolazione, all’epoca dei fatti contestati.

La nostra leadership, sebbene abbia mostrato una volta ancora la propria assoluta inanità, ha dalla sua una gran fortuna. Per un concorso di circostanze è giunto a maturazione l’accordo di libero scambio tra India e Unione Europea. L’accordo ora deve passare al vaglio del Consiglio Europeo dove l’Italia, in quanto Stato membro, potrebbe esercitare il suo diritto di veto bloccando di fatto il negoziato commerciale. Forse agli indiani questo particolare era sfuggito, però siamo certi che il presidente Barroso, nel suo recente intervento, abbia spiegato ai suoi omologhi di Delhi la situazione. Abbia detto con chiarezza agli interlocutori che anche quei poveracci degli italiani, che loro per due anni hanno strapazzato come si strapazza uno strofinaccio di cucina, hanno voce in capitolo e, volendo, potrebbero pure trovare la forza di farsi ascoltare.

Nel contempo, ci si augura che Ban Ki-moon sia andato a rivedere i bilanci Onu per verificare in quale misura la bistrattata Italia contribuisca a tenere su la baracca e soprattutto quanto spenda di suo il nostro Paese per pagare le tante missioni di peacekeeping che le forze armate tricolori svolgono da tanti anni, con onore e con successo, in tutte le aree a rischio del pianeta. A proposito, finalmente il dimissionario ministro della Difesa ha trovato la forza di accennare alla possibilità che l’Italia congeli i finanziamenti destinati al sostegno delle nostre missioni all’estero. Era ora! Questa è la moneta con cui si negozia nel mondo. Se hai qualcosa da far valere la devi mettere sul piatto altrimenti finisce che gli altri, fosse pure l’ultimo dei Paesi della Comunità internazionale, si sente in diritto di camminarti addosso.

Cosa accadrà ora in India? È difficile dirlo non avendo a disposizione un affidabile sfera di cristallo. È tuttavia possibile immaginare che la Corte prenda altro tempo. È nelle possibilità della Corte Suprema di valutare il rischio che potrebbe comportare per il Paese l’abbracciare una linea processuale definitiva. Non crediamo che si voglia da parte indiana provocare conseguenze indesiderabili dal punto di vista del futuro delle relazioni internazionali. Se così non dovesse essere, se gli indiani decidessero per orgoglio nazionale di andare avanti allora vorrebbe dire che l’agenda del nuovo governo italiano avrebbe un bell’argomento da mettere al primo posto dell’ordine del giorno: come tirare fuori i nostri ragazzi da quel pantano.

Resta avvertito il signor Renzi. Il fatto che appaia simpatico e imiti alla perfezione Crozza quando fa la sua caricatura, non gli basterà per cavarsela con gli italiani. Come direbbero a Firenze: questa volta noi la si fa sul serio!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:17