
Francamente ci stupiamo che ci si stupisca del cosiddetto scoop di Alan Friedman sui giorni maledetti dell’estate del 2011. In passato, dalle colonne di questo giornale, abbiamo raccontato un’altra storia che evocava scenari del tutto compatibili con quelli che descrive il simpatico giornalista statunitense. In realtà parlare di complotto appare inappropriato perché sarebbe più efficace sostenere che l’operato del presidente Napolitano in quel periodo, che data non dall’estate del 2011 come si vorrebbe far credere ma da quella dell’anno precedente, sia stato improntato alla necessità di trovare una soluzione alternativa al Governo Berlusconi che corrispondesse ai desiderata dei maggiori partner occidentali dell’Italia.
Un fatto deve essere ricordato che ha capitale importanza nello svolgersi degli accadimenti di quella fase: l’elezione alla Casa Bianca del democratico Obama. Non crediamo siamo un mistero che il cambio al vertice dell’amministrazione americana abbia costituito un handicap per l’alleato italiano Berlusconi, certamente mal visto dalla nuova leadership d’Oltreoceano. D’altro canto, anche all’interno della Unione Europea il consenso riscosso dal nostro Presidente del Consiglio, all’epoca dei fatti, strideva con l’evidente difficoltà che i Paesi dell’asse franco-tedesco incontravano nel tenere imbrigliata l’Italia entro gli angusti confini di una strategia europea di loro esclusivo gradimento. Si ricorderà, in proposito, l’azione di rottura svolta da Berlusconi in occasione dell’appoggio alla linea dell’amministrazione Bush sull’offensiva in Iraq. In quella occasione, siamo nel gennaio 2003, “l’asse carolingio” tentò di tenere l’Unione Europea di Romano Prodi, con la sola eccezione della Gran Bretagna, lontana dalla posizione interventista degli Usa. Fu Berlusconi, in quella circostanza, a rompere il fronte all’interno della Ue per riportare la maggioranza dei Paesi ad appoggiare l’iniziativa americana.
Quella volta a Berlusconi andò bene, ma i partner ostili se la legarono al dito. Tuttavia, a Obama, nonostante i tanti meriti vantati dall’alleato italiano in favore della politica estera statunitense, non poteva andar bene la politica di affettuosa vicinanza che Berlusconi aveva consolidato negli anni con il leader russo Putin. L’iniziativa, valutata eccessivamente disinvolta del politico italiano, non poteva essere compresa, e ancor meno accettata, da chi era abituato a considerare l’Italia per il suo ruolo satellitare rispetto alla politica estera americana. Inoltre, Berlusconi stava accrescendo la sua presenza presso le potenze regionali del Nord Africa e di alcuni Paesi strategici del Medioriente, a cominciare da Israele. Al punto che si vede comparire, il 27 marzo 2010, Berlusconi al fianco di Al Qadhdhafi, quale unico leader occidentale invitato a presenziare ai lavori della Lega Araba. Questa sovraesposizione non era gradita a nessuno: americani, francesi, inglesi, tedeschi. E quando è troppo è troppo. Bisognava impartire una lezione a quell’italiano un po’ guascone, un po’ troppo sopra le righe, che fra una barzelletta e una pacca sulla spalla stava tessendo una trama solida di ineteressi commerciali per il suo Paese e, nel contempo, stava acquistando peso specifico personale all’interno della Comunità internazionale.
Si può solo immaginare la rabbia dell’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder che si trova l’onnipresente Berlusconi nella foto di famiglia a fare, sorridente, il 10 agosto del 2003, la parte del testimone di nozze al matrimonio del figlio del premier turco Erdogan. Proprio lui Schröder, aveva fatto enormi sforzi per fregare all’Italia la partnership commerciale con la Turchia, quasi azzerata dal suicidio politico di quelle menti eccelse del Governo D’Alema con la disastrosa gestione dell’affare della presa in carico in Italia del terrorista curdo Ocalan, condannato a morte da un tribunale turco. I padroni del vapore dovevano fare qualcosa che fermasse la navigazione corsara dell’intraprendente italiano e, allo stesso tempo, servisse da monito a tutti gli altri leader di secondo piano sullo scacchiere internazionale a non mettersi strani grilli in testa. E l’occasione per la punizione è arrivata puntuale con la vicenda della guerra libica.
Il modo con il quale l’Italia, fino al giorno prima, solida alleata del satrapo Al Qadhdhafi, è stata costretta a girargli le spalle e a mettersi all’ordine di fronte ai diktat della coppia Sarkozy-Obama, ha costituito non solo un’umiliazione profonda per l’intero popolo italiano, piuttosto ha segnato la perdita di contatto con una realtà, quella della leadership libica, che garantiva stabilità alla nostra economia.
L’Italia aveva sottoscritto un patto di non aggressione con la Libia. La stipula di un’alleanza strategica, avvenuta nell’agosto del 2010 nello scenario splendido di Roma, quando vennero visti i cavalieri berberi galoppare a fianco dei nostri carabinieri sul prato di Piazza di Siena, prevedeva in contropartita la realizzazione di un piano di lavori per la costruzione della nuova Libia nel quale le nostre imprese avrebbero fatto la parte del leone. Inoltre, l’accordo prevedeva un potenziamento della presenza dell’Eni nella gestione delle attività estrattive del petrolio in Cirenaica. La compagnia petrolifera italiana a sua volta apriva “il fronte libico” alla Gazprom russa per i diritti di sfruttamento al 50% del pozzo libico El Feel. Ironia della sorte, l’accordo con Gazprom fu sottoscritto dal leader russo Medvedev a Roma il 17 febbraio 2011, nel mentre iniziavano le sommosse in Libia e a Berlusconi veniva recapitato il fatale rinvio a giudizio per la vicenda “Ruby”.
L’accordo di partenariato italo-libico prevedeva maggior spazio di manovra al fondo sovrano libico, già presente sul nostro mercato con significative partecipazioni, perché incrementasse la politica d’investimenti nella manifattura italiana. Più in generale, la presenza accanto alla fragile Italia di un partner molto dotato dal punto di vista della liquidità finanziaria, aveva messo già da tempo la mordacchia agli speculatori. Nessuno sarebbe stato tanto folle da puntare sulla crisi italiana fin quando la nostra economia fosse stata supportata dalla presenza di un partner tanto solido. Dunque, bisognava che questo legame venisse spezzato per mettere in ginocchio Berlusconi, e gli italiani. Detto, fatto. Con la tragica buffonata della “primavera araba” inizia la pressione sui Paesi del Nord Africa. Cade il regime tunisino, poi è la volta di Mubarak in Egitto. Completato il lavoro, grazie al fondamentale aiuto della dinastia Qatarina degli Al-Thani, i proprietari di Al Jazeera per intenderci, inizia l’operazione “libertà per la Libia”. Già da qualche mese in Cirenaica erano in azione gli uomini dei servizi segreti francesi che preparavano indisturbati, sotto il naso dei nostri servizi, la rivolta armata.
Tra la fine del febbraio 2011 e gli inizi di marzo, scatta la trappola. Purtroppo, bisogna dirlo, in quella circostanza gli “alleati” furono favoriti da una temporanea perdita di lucidità di Berlusconi, che invece di opporsi per impedire lo scempio che si è succissivamente perpretato, rifiutandosi di concedere le basi per l’appoggio aereo all’iniziativa militare alleata, lasciò fare al Presidente della Repubblica che prese nelle proprie mani l’iniziativa e portò l’Italia a un’inversione di rotta paragonabile nei modi e negli effetti al tragico 8 settembre del ‘43. Vi è da dire che Berlusconi non ebbe il necessario sostegno neppure dai suoi stessi ministri, il primo dei quali, l’allora titolare degli Esteri, Frattini, ancor prima che il premier si pronunciasse, si sperticava in dichiarazioni pubbliche di appoggio all’iniziativa franco-americana.
Oggi comprendiamo più facilmente i motivi per tanto zelo. Ancor prima che l’Onu tirasse fuori la Risoluzione n. 1973, approvata nella seduta del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011, che suonava su Ghaddafi come una campana a morto, il presidente Napolitano ha riunito il 9 marzo il Consiglio Supremo di Difesa e in quella sede, con il supporto dei rappresentanti militari, ha dettato la linea al Governo. Berlusconi ha la grande responsabilità di averlo permesso, di non essersi eretto a novello Craxi per dire alla comunità internazionale: “Giù le mani dalla Libia! Se c’è un problema di demcrazia interna mi faccio io garante di avviare un processo negoziale tra il mio amico Al Qadhdhafi e i suoi oppositori perché si giunga a un’equa soluzione”.
E così che dopo aver baciato la mano al satrapo qualche mese prima, ci siamo trovati a sparargli addosso per stare agli ordini del nostro principale alleato d’Oltreoceano. Che la bagattella della “democrazia e della libertà” per il popolo libico fosse tale è provato dagli esiti odierni della vicenda di quel Paese, in preda all’anarchia e alla violenza. Altro che democrazia! E di questo, ovviamente, non frega niente a nessuno. A dimostrazione che l’obiettivo era sotanto quello di sottrarre la ricca terra di Libia alla sfera d’influenza italiana.
Così la fine drammatica di Al Qadhdhafi ha significato la sostanziale perdita di peso dell’Italia in quall’area a vantaggio principalmente della Francia, che ha consolidato la sua presenza strategica ed economica in tutta la fascia Nord africana fino al Sahel. Inoltre, la perdita di un garante tanto solido ha determinato la rapida involuzione del quadro macroeconomico italiano. Mentre all’inzio del 2011 tutti gli indicatori europei davano l’economia italiana tra le più in salute dell’area Ue ( il famoso spread alla fine del primo trimestre veleggiava ancora intorno a 163 punti percentuali), nell’estate del 2011, in soli pochi mesi, è successo quello di cui oggi si discute: il nostro Paese è finito nel baratro. La verità è che la crisi pagata sui mercati finanziari è stata l’epilogo di una disfatta politica, non già la causa.
Nulla di strano, dunque, se dopo gli esiti libici, il solerte Napolitano si desse da fare per cercare una sostituzione a un leader che, non gli italiani, ma i partner esteri non volevano più tra i piedi. A sostegno, si ricorderà che già dal 2010 tutte le cancellerie occidentali, poi coinvolte nell’affaire libico, a proposito dell’Italia, si riferivano a Napolitano come l’autorità politica garante della credibilità del nostro Paese nell’ambito della comunità internazionale. Quando Sarkozy e la Merkel nell’ottobre 2011 si scambiano risatine parlando di Berlusconi o quando il 4 novembre successivo al vertice di Cannes tutti i leader presenti fanno a gara a scansare Berlusconi trattandolo come se fosse un “dead man walking”, siamo già ai titoli di coda di un film che ci ha visto protagonisti nella parte degli sconfitti. Con l’avvento di Monti non è arrivato il salvatore della Patria, il “defensor civitatis”. Più tristemente a Palazzo Chigi si è insediato un contabile a cui i vincitori hanno dato il compito di fare l’inventario di ciò che restava da spartirsi della grande impresa di Stato italiana. Nient’altro.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16