
Siamo giunti al momento decisivo delle scelte, quelle definitive, quelle da cui non è possibile tornare indietro. Parlo della sorte dei nostri fucilieri di marina, illegittimamente trattenuti dalle autorità giudiziarie, e politiche, della Repubblica dell’India. In passato, per questi due ragazzi non è stato fatto nulla di buono. Al contrario, le poche iniziative prodotte dal Governo italiano sono state a dir poco irresponsabili, e sempre codarde. Ci si è parati dietro la storia della doverosa cautela da assumere per evitare di compromettere rapporti fruttuosi su altri versanti con l’interlocutore indiano.
I nostri massimi rappresentanti si sono ben guardati dal prendere di petto la questione, limitandosi a fare il minimo sindacale in difesa della dignità nazionale, vulnerata dalla vicenda della “Enrica Lexie”. Ora, però, tutto quel che è stato non conta più, siamo alla vigilia di una decisione che porrà una volta per tutte l’Italia di fronte alle sue responsabilità. È probabile che, nei palazzi romani, si intonino monotone litanie che implorano il miracolo, nella recondita speranza che sia l’India, e non l’Italia, a tirar via le castagne dal fuoco. Si spera in una decisione che consenta al nostro Governo di dire: “Siamo contenti che sia andata così, visto che realisticamente meglio non sarebbe potuta andare”. In fondo, passerebbe pure per un discorso saggio.
Il fatto è che, tra l’aspettativa della nostra opinione pubblica per una giusta soluzione e le valutazioni di convenienza delle nostre rappresentanze istituzionali, corre un divario difficilmente colmabile. Il Governo si prepara a dire, dopo lunedì prossimo, giorno della decisione sull’incriminazione dei nostri marò e sulla contestazione dei capi d’accusa, “accontentiamoci”. Allora, domandiamoci di cosa dovremmo accontentarci. Dovremmo forse ritenere favorevole una soluzione che veda incriminati Latorre e Girone per atti di pirateria, in forza dell’applicazione della ormai stranota legge indiana del ”Sua Act”, avendo in contropartita la promessa della non applicazione della massima pena edittale prevista, cioè la condanna a morte degli imputati? Dovremmo, invece, dirci soddisfatti e vincenti se i nostri ragazzi venissero rinviati a giudizio con la sola accusa, si fa per dire, di duplice omicidio? Se poi l’omicidio venisse derubricato da volontario a preterintenzionale, o meglio ancora a colposo, ci toccherebbe di stappare lo spumante? Personalmente penso che questo nostro tempo storico sia percorso da vene di follia che nulla hanno a che vedere con quella bella rivendicazione di libertà che fu “L’elogio della pazzia” di Erasmo da Rotterdam.
Qui si assiste all’allineamento della verità agli interessi prevalenti rappresentati e difesi dai ceti dominanti del nostro Paese. Nulla di strano se questo fosse onestamente inquadrato in un problema di egemonia di classe che resta a base di ogni compiuta teoria dello Stato. Altro è, invece, far passere ciò che conviene spacciandolo per ciò che sia giusto. È questa sovrapposizione del concetto di convenienza con l’elemento assiologico incarnato nel principio di giustizia che rende indigeribile, e puteolente, la “sceneggiata” a cui stiamo assistendo. Ma l’aspetto più preoccupante è che pure persone dotate di sicuro spessore morale e intellettuale, cresciute con il nutrimento dei più sani principi, stiano inconsapevolmente cascando nella trappola che questa classe dirigente, giacché qui non c’entra solo la politica, ha teso all’opinione pubblica italiana per condurla a credere che, in fondo, una soluzione punitiva, ma non troppo, ci stia. In proposito ho letto con stupore le considerazioni di chi sosteneva, in perfetta buona fede, che i nostri marò fossero stati vittime della loro stessa immaturità professionale.
Tra le righe si è tentato di far passare l’idea che i fucilieri abbiano agito un po’ sopra le righe, non sapendo valutare l’effettiva consistenza del rischio da fronteggiare. A supporto di questa bizzarra tesi, si citava il fatto che una diversa esperienza avrebbe consentito ai marò di fare la giusta differenza tra un vecchio, lento peschereccio e un motoscafo superveloce, di solito impiegato per gli atti di pirateria. Non desidero essere offensivo o irrispettoso ma, mi chiedo, come si faccia a sostenere una simile corbelleria. Forse si è trascurata la caratteristica funzionale della nave “Enrica Lexie”. In realtà l’unità mercantile è una petroliera. Come si evidenzia dalle foto scattate all’arrivo in porto a Kochi, la nave viaggiava scarica. Lo si evince dall’altezza della marca di bordo libero.
Il che significa che sebbene non avesse prodotto stoccato, non vuol dire che fosse vuota. Le cisterne adibite a contenere il petrolio o i prodotti raffinati liquidi, si saturano di residui gassosi degli idrocarburi che sono altamente instabili, quindi a rischio esplosione. Ora, per indurre il comando di un’unità mercantile in navigazione nelle medesime condizioni della “Enrica Lexie” ad arrestare la marcia sarebbe stato sufficiente non un peschereccio ma una canotto a remi se su quel canotto avesse trovato posto un terrorista armato di un comune lanciarazzi RPG -7, di fabbricazione russa, in grado di colpire alla massima gittata di 920 metri il bersaglio. L’arma, nella sua versione avanzata, è in grado di perforare la corazza di un qualsiasi carro blindato, figurarsi la lamiera d’acciaio del fasciame di una nave, che non supera i 20-30 millimetri di spessore.
Il comandante della “Enrica Lexie” se, come i protocolli per la presenza a bordo della scorta armata prevedevano, non avesse ceduto il comando delle operazioni di dissuasione al capo pattuglia dei marò, avrebbe dovuto fermare le macchine e sottostare alla minaccia degli aggressori per evitare che un colpo di granata gli facesse saltare in aria la nave con la conseguenza della sicura morte per tutto il suo equipaggio. Dunque, i marò hanno perfettamente agito rilevando nella condotta di navigazione del peschereccio un possibile intento ostile. Nel momento nel quale il natante indiano si è posto in rotta di collisione con la nave italiana, dovevano scattare le procedure di sicurezza. Quindi i nostri militari hanno fatto il loro dovere con la professionalità e la competenza che il mondo ricosce alle nostre forze armate nel momento nel quale sono chiamate a interventi di peacekeeping nei più disparati teatri operativi.
Latorre e Girone appartengono al reggimento dei fucilieri di mare del San Marco. Si tratta di un corpo d’élite addestrato ad affrontare qualsiasi situazione, soprattutto a gestire il contatto con le popolazioni civili. Quindi, farli passare per dei “rambo” un po’ esaltati, dal grilletto facile, è un’accusa ingiusta, oltre che, dal punto di vista umano, una carognata bella e buona. È stato un errore della autorità italiane interpellate, autorizzare la Enrica Lexie a invertire la rotta per rientrare in acque indiane. È stato un errore non provvedere all’immediato sbarco del gruppo armato di militari per porli immediatamente sotto l’autorità dell’ambasciatore italiano in quel Paese. È stato un errore consentire che venissero arrestati. È stato un errore che l’India ci costruisse su un caso giudiziario, gestendolo a proprio uso e consumo. È stato un errore risarcire i familiari delle vittime, riconoscendo un’implicita responsabilità nella vicenda.
È stato un errore non invocare subito, davanti agli organismi internazionali, un arbitrato per giudicare la titolarità della giurisdizione. È stato un errore usarli per combinare uno spot elettorale come ha fatto il signor Monti e, poi, rispedirli al mittente alla stregua di un qualsiasi pacco postale, scambiando i marò per i marinai della canzone di Dalla e De Gregori. È stato un errore non pretendere il coinvolgimento immediato della Commissione Europea. È stato un errore non minacciare l’immediato ritiro dei nostri contingenti da tutti i fronti operativi.
Credo che di errori ad oggi ne siano stati commessi a sufficienza, sarebbe opportuno a questo punto darci un taglio e cominciare a pensare di fare qualcosa di serio per i nostri ragazzi. Un mio antico maestro si divertiva, per una sorta di simpatico dileggio, a dire che sicuramente tre cose non avrei mai imparato a fare: a piangere, a pregare, a ballare. Aveva ragione. Mai sono riuscito a padroneggiare alcuna delle tre. Ora però, da laico, sento di dovere sforzarmi in un cimento: provare a pregare. Pregare per la sorte di quei due ragazzi e per il loro futuro sul quale vedo addensarsi nere nuvole di oscuri presagi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16