Patrimonio pubblico, vendere è un’illusione

Nell’interessante intervista al leader di “Fare”, Michele Boldrin, realizzata su queste pagine da Maurizio Bonanni, viene sostanzialmente riproposta una tesi portata avanti da questo movimento nell’ultima campagna elettorale: un drastico abbattimento dell’attuale debito pubblico, nell’ordine di 35 miliardi all’anno, attraverso la vendita di una buona parte del patrimonio pubblico. L’idea sarebbe quella di mettere sul mercato una ingente quantità di immobili dello Stato e, nel contempo, vendere molte delle aziende partecipate.

Ora, facendo i classici conti della serva, come si suol dire, il valore stimato degli asset pubblici è immenso, ma lo è essenzialmente su un piano contabile. Dato che la ricchezza delle nazioni, di cui il capitale complessivo costituisce semplicemente un puro corrispettivo finanziario, si basa sulla capacità organizzativa, finalizzata a produrre beni e servizi, dei suoi abitanti, è ovvio che se quest’ultima va in crisi il valore di mercato degli immobili e dei titoli azionari precipita. Per dirla in termini ancor più semplici, in un sistema in cui si lavora e si produce sempre meno, lo stock patrimoniale complessivo perde valore di pari passo, in quanto sono sempre più scarso il capitale accumulato.

Non solo, soprattutto sul piano immobiliare, laddove una fiscalità feroce tende sempre più a colpire il patrimonio statico, oltre alla mancanza crescente di risorse finanziarie, è fortissimo il disincentivo a non investire nell’acquisizione di beni il cui destino tributario appare eufemisticamente incerto. In pratica, così com’è già avvenuto con tanti carrozzoni pubblici, lo Stato potrebbe formalmente cedere la proprietà di tanti immobili per poi socializzare buona parte dei risparmi dello sprovveduto compratore, attraverso la solita mitragliata di gabelle e balzelli che tristemente conosciamo.

Per farla breve, dato che la natura dei nostri gravi problemi, tra cui il colossale indebitamento pubblico, è sistemica, se non si riequilibra un’economia gravata da un impressionante eccesso di Stato, riducendone drasticamente il perimetro, anche vendendo l'Arena di Verona o la Reggia di Caserta non si sposterebbe di una virgola la questione. Anzi, con questo tipo di illusioni contabili non si aiuta certamente a far comprendere ad un Paese molto confuso che solo il lavoro vero, non certamente quello inventato dai pifferai della politica e del sindacato, sarebbe in grado di farci uscire dai guai. L’argenteria conviene lasciarla nei forzieri, almeno fino a quando non saremmo in grado di creare un adeguato terreno per qualunque forma di investimento.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:58