
E così, con il sostegno palese dei partiti che sostengono le larghe intese, il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, è di fatto uscita dai guai provocati dalle intercettazioni di una sua telefonata in cui rassicurava la famiglia Ligresti di contare sul suo interessamento a favore della figlia dell’imprenditore Salvatore, Giulia. Interessamento poi scaturito in un intervento diretto presso il Dap per vigilare sul suo stato di salute e a distanza di pochi giorni dal quale la figlia di Ligresti ha ottenuto i domiciliari.
Scontato ormai, dunque, l’esito del voto sulla mozione di sfiducia individuale presentata da M5S, che andrà al voto la prossima settimana e anche la ricomposizione dell’incidente politico. Altrettanto chiare però sono le molteplici sfaccettature che il caso Cancellieri ha portato in superficie. Sul piano dell’opportunità è ormai evidente che l’amicizia di lunga data, contrassegnata anche dagli strapagati rapporti di lavoro che il figlio della Cancellieri ha avuto con la famiglia Ligresti, avrebbe dovuto trattenere la Guardasigilli dall’attuare un intervento che ha insistito nel definire umanitario e pari a centinaia di altri da lei fatti per analoghi casi carcerari.
Formalmente non sono comparsi, tuttavia, elementi che potessero spingere a pensare ad alcuna pressione sui giudici per la scarcerazione della figlia di Ligresti. Nell’Italia delle caste, però, l’intervento del ministro ha alimentato all’interno dell’opinione pubblica, troppo sensibile a quello stesso richiamo populista, forcaiolo e colpevolista cui rispondono tutti coloro che invocano le sbarre preventive prima che abbiano luogo i processi, il fortissimo sospetto del solito italico intreccio tra nepotismo, privilegi, debiti e contiguità con i potentati e una giustizia incline ad operare in modo arbitrario e selettivo anche sul piano delle garanzie da quel vero abuso che è la carcerazione preventiva.
Inutile negare che in questi giorni sui social network e per le strade ha imperversato l’interrogativo, retoricamente formulato, di quanti carcerati o familiari di detenuti con problemi di salute abbiano la reale possibilità di esporre al Guardasigilli le proprie emergenze in una telefonata e ci si sia ripetutamente domandati se il lavoro del titolare del dicastero di via Arenula sia quello di dedicarsi agli “interventi umanitari” piuttosto che ad un raddrizzamento delle abnormi storture della Giustizia italiana.
Ecco, appunto, qui subentra l’ulteriore piano di lettura del caso Cancellieri, quello che va osservato in filigrana sebbene la sua portata sia di inaccettabile gravità e richiami inevitabilmente l’ormai consolidata maledizione di via Arenula che da un ventennio a questa parte si abbatte su tutti i Guardasigilli seriamente impegnati sul terreno delle iniziative riformatrici del sistema giudiziario italiano con incidenti e attacchi di varia natura volti ad inficiarne la credibilità.
In questa prospettiva, fuori dal valzer delle strumentalizzazioni che ne siano state fatte, la vicenda Cancellieri è del tutto analoga ai casi Martelli, Conso, Biondi, Mancuso e Mastella che hanno punteggiato la storia degli ultimi vent’anni del nostro Paese. All’insegna di un’unica certezza: chi tocca i fili della giustizia muore, sebbene di morte politica. Ed è altrettanto ovvio che il ministro Cancellieri, fortemente sostenuta dal Quirinale proprio nella prospettiva di avviare un iter di interventi e di riforma giudiziaria di cui il nostro devastato Paese ha estrema necessità, esca, alla stessa stregua di quanto accaduto ai suoi predecessori, molto delegittimata e screditata nel suo ruolo di artefice di qualunque cambiamento di normativa possa incrinare l’inamovibilità dell’intera struttura dell’apparato della Giustizia. Ministra avvisata, insomma, mezza azzoppata. Al solito.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:49