
La manifestazione dei commercianti di Napoli dello scorso 10 aprile, così lucidamente analizzata dal direttore Diaconale, evoca l’urlo silente del “Fate presto” che dalle viscere della terra rimbalzava su quell’indimenticabile prima pagina de “il Mattino” (e non del “tarocco” confezionato in chiave antiberlusconiana dal “Sole 24 Ore”), all’indomani del terremoto che devastò la Campania nel 1980. Il “catenaccio”al titolo geniale, pensato da un giornalista di razza qual è stato Roberto Ciuni, chiariva perché si dovesse far presto, lasciando da parte lo sgomento per l’immane disastro e la rabbia impotente di fronte alla forza insuperabile della natura mutante: “per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”.
La pagina, consegnata alla storia grazie alla trasfigurazione artistica che ne aveva fatto Andy Warhol, nella sua unica opera non titolata in inglese, ha ripreso vita nelle immagini che la piazza napoletana dello scorso mercoledì ci ha consegnato. Anche quei volti contratti e offesi sembra stiano gridando: Fate presto! Perché se allora crollavano le case, oggi con altrettanto drammatico esito, stanno crollando vite e storie familiari sotto i colpi di una crisi che è la risultante, e non la causa unica, di un complesso di insostenibilità giunte tutte insieme al punto critico di non ritorno. Ha ragione il direttore Diaconale a ritenere superficiale, e inutilmente offensiva della grande maggioranza dei partecipanti, la liquidazione dell’evento come fatto contaminato da interessi di camorra. In piazza si è presentata una porzione di Napoli, quella dei vecchi commercianti del centro, di Chiaia e del Vomero, come delle zone nuove, che ha rappresentato la struttura portante di un’economia locale le cui ambizioni di espansionismo industriale sono state, nel tempo, prima ridimensionate e poi del tutto annichilite.
Se qualcuno si fosse scomodato a guardare i dati più recenti forniti dagli organismi di rilevazione, avrebbe scoperto che l’universo imprenditoriale della provincia di Napoli, è composto al 73,6% da imprese del settore terziario, contro un modesto 10,9% del manifatturiero. E se proprio si desideri spaccare il capello in quattro si sappia che delle 121.427 aziende censite dalla Camera di Commercio di Napoli, ben 61.710 sono di commercianti. Se, dunque, all’improvviso per le strade scendono a protestare non gli studenti, non i professori, non i caschi gialli ma una massa tratta da quella che un tempo si era soliti definire, con un retrogusto di mal celato disprezzo, la maggioranza silenziosa, qualcosa vorrà pur dire. È un segnale o no? Se crolla il comparto del commercio in una realtà già scarsamente dinamica qual è il tessuto produttivo di Napoli, non va soltanto in crisi un settore economico, peggio: vien giù tutto. Il commercio non serve solo la domanda interna ma fa da volano al settore del turismo. Quindi deprimendo l’offerta, particolarmente nella sua componente artigianale, anche l’offerta turistica è destinata a contrarsi, per perdita qualitativa.
La chiusura quotidiana degli esercizi commerciali sta dando una grossa spinta all’impennata della curva della disoccupazione, specialmente giovanile. E non stanno meglio la moltitudine di professionisti: commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro, ragionieri contabili, ingegneri, informatici, medici del lavoro, che hanno finora tratto da questo consistente bacino d’utenza, le risorse economiche per assicurarsi un futuro patrimoniale e professionale accettabile. Sono queste evidenti certezze che rendono la situazione napoletana esplosiva più che altrove ma non credo che la borghesia cittadina costituisca da sola il potenziale d’innesco di una rivolta che una volta scoppiata sarebbe molto difficile circoscrivere. Il direttore Diaconale asserisce in incipit alla sua riflessione che «le rivoluzioni non nascono mai dalle masse popolari ma solo dalle minoranze attive della borghesia». Vero. La storia napoletana però restituisce un quadro molto diverso da quello, ad esempio, delle realtà del settentrione d’Italia. In effetti, la città un tempo capitale di un regno, non ha mai realmente conosciuto lo spirito illuminato della borghesia produttiva, o se lo ha conosciuto, in alcuni periferici tornanti della storia, non è riuscita a metabolizzarlo. In fondo, l’anima profonda del ceto medio è rimasta “sanfedista” negando cittadinanza di pensiero ai Pagano, ai Cirillo e a tutti quei ragazzi del ’99 napoletano, delle cui gesta si parla soltanto in polverosi salotti laicisti e autoreferenziali.
La cifra della contestazione è, per la piccola borghesia napoletana, quella della rivolta della plebe, della ribellione antisistema, di stampo seicentesco, dei Masaniello e non l’utopia egualitaria delle élite giacobine. Perché vi sia la detonazione occorre che al potenziale di rabbia sociale di un ceto medio in crisi e in perdita di stabilità economica e valoriale, si aggiunga il conduttore elettrico di un sottoproletariato diffuso nei meandri della città vecchia come nelle periferie del degrado urbano, epigono del mondo dei “lazzaroni”, che continua ad esistere e a proliferare anche nel nuovo millennio, a dispetto di tutti falsi o supposti rinascimenti, e che ha in molte sue parti elementi di parentela e di contiguità con le organizzazioni criminali radicate sul territorio. Per esser chiari, per i commercianti è stato rivoluzionario già il solo fatto di sfilare per le strade, ma non sono stati loro a portare le bombe carta. Perché? Semplicemente perché non ne sarebbero stati capaci, non appartiene al loro dna, fatto magari di piccoli egoismi e di molta concretezza, di rischiare lo scontro diretto, fisico, con l’interlocutore, a maggior ragione se d’altra parte c’è comunque lo Stato. Queste cose le fanno con miglior esito quelli che sono strutturati, nelle forze e negli interessi, a contrapporsi militarmente al nemico mediante il ricorso sistematico alla violenza individuale e su larga scala. Ed è questo incrocio che può rendere la situazione davvero esplosiva, a partire dalla tenuta dell’ordine pubblico.
Spesso si trascura di considerare, nell’analizzare il contesto socio economico napoletano, un elemento significativo costituito dal crollo del cosiddetto welfare criminale. Storicamente, e in modo più vasto e sistematico a cominciare dagli anni Ottanta con l’avvento della nuova camorra di Cutolo, le organizzazioni malavitose hanno assicurato ai propri aderenti e alle rispettive famiglie mezzi di sostentamento anche in assenza di “produttività” dell’attività criminale. I boss hanno azionato una sorta di ammortizzatori sociali per i loro protetti, innanzitutto per assicurarsene la fedeltà e l’obbedienza in occasione delle guerre più sanguinose ingaggiate contro concorrenti e nemici. Oggi, grazie alla pressante azione di contrasto posta in essere dalle forze dell’ordine e per effetto in ricaduta della crisi economica che si riflette anche sulle attività illecite, i clan hanno serie difficoltà a sostenere una struttura tanto pesante quanto costosa. Ne consegue che è in libera uscita dal controllo stretto delle gerarchie criminali un significativo numero di soggetti che ha conservato le armi, già detenute illegalmente, è addestrato all’uso brutale della violenza ed è cresciuto nella convinzione che lo Stato sia il nemico e che il più forte comandi. E per sopravvivere bisogna essere i vincenti. Mario Draghi, in una dotta prolusione all’Università degli Studi di Milano nel marzo 2011, denunciò il peso dei costi economici della criminalità organizzata sull’attività produttiva del Mezzogiorno. Qualcuno provi a immaginare se un’area di diseconomia ambientale tanto consistente, dopo essersi infiltrata con successo nel mondo produttivo locale deviandone il regolare corso di sviluppo, dovesse decidere di prendere la testa della contestazione determinando tempi e modalità di attuazione della protesta in piazza. Spero per il destino non soltanto della mia città, Napoli, ma di tutta la nazione, che quel giorno non sorga.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:44