Perché Grillo deve chiamare Pannella

Non so se Grillo lo farà mai, ma se fossimo al suo posto, proprio in questo momento d’inatteso e straordinario successo, cercheremmo a tutti i costi un incontro con un grande combattente per la libertà nel nostro Paese per evitare di finire, per inesperienza o ingenuità, fagocitato da quel sistema partitocratico che si vuole sradicare. Prenderemmo il cellulare e chiameremmo Marco Pannella. Pura follia? Non proprio. Anzi, il contrario. Sarebbe un atto di intelligente prudenza. Ma come, si dirà, lui, Beppe Grillo, il trionfatore di questa tornata elettorale, dovrebbe rivolgersi ad un politico apparentemente minoritario e sconfitto? Certamente. E per il semplice motivo che il movimento di Grillo non sarebbe mai esistito così com’è se la sua strada non fosse stata spianata da un sessantennio di ostinata insistenza pannelliana antiregime. Insistenza duramente scontata ma, a ben vedere, tutt’altro che vana e vanificata.

I grillini hanno giustamente e meritatamente, raccolto nei modi e nei contenuti molto di quanto il radicalismo di Pannella ha saputo minuziosamente e testardamente seminare, a cominciare dal ricorso, in netto anticipo su tutti, all’utilizzazione dell’informatica come veicolo di partecipazione democratica. C’è, però, tra grillino e radicali una differenza di non poco conto: l’assenza nei primi di radici storiche e, quindi, di linfa vitale. Sono, infatti, evidenti i tratti approssimativi che, sotto il profilo della storia della politica, connotano le Cinque Stelle. Un albero che, dalla sera alla mattina, si trova ad essere oltremisura rigoglioso rischia, ahinoi, di afflosciarsi con la stessa velocità se risulta mancante di solide basi. Se il radicalismo pannelliano ha potuto, dalla metà del secolo scorso, traguardare il nuovo millennio, lo si deve alla convergenza in esso di diversi, ma riconoscibilissimi, affluenti: la nonviolenza (come teoria e prassi), l’antifascismo liberale e azionista, il libertarismo riscattato dalla tetra forma organizzativa dell’anarchismo dei primi del Novecento e trasferito, invece, su un piano esistenziale (più camusiano che sartriano), l’ardente e vibrante religiosità disancorata dal confessionalismo, il profetismo tanto visionario da rivelarsi, suo malgrado, iperrealistico, l’ambientalismo (è innegabile che i verdi sia nati in Italia come costola dei radicali).

Tutto questo su un sostrato, ben consistente, refrattario a qualsiasi ideologia. Ora, nel movimento dei grillini si riscontrano echi, segmentazioni parcellizzate di aneliti radicali, senza, tuttavia, quella spinta proveniente dalla storia che chiede di irrompere nel presente prefigurando il futuro. Sia chiaro che scriviamo queste riflessioni mossi da simpatia, oseremmo dire da affinità elettiva, con quanto di positivismo e costruttivo il movimento di Grillo, tutt’altro che meramente contestatario, può esprimere. In politica, come nella vita di ognuno, la parola acquista maggiormente senso e valore se nasce dall’ascolto. E le Cinque Stelle, in questo senso, non possono fare a meno dell’analisi racchiusa nel dossier radicale “La peste italiana” da cui, nero su bianco, si evince il processo di distruzione nel nostro Paese del diritto, della democrazia, della legalità, all’indomani dell’entrata in vigore della carta costituzionale. Il fatto che i radicali siano stati elettoralmente cancellati nelle ultime elezioni paradossalmente purtroppo conferma e non inficia la validità di quell’analisi. Grillo non può non tenerne in debito conto soprattutto in queste ore in cui, smaltita l’euforia, è chiamato a non crogiolarsi nell’autocelebrazione ma a dare vita e corso al rimbaudiano “raisonnable dérèglement des sens”. Ora o mai più.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:21