L’illusione fatale del “nuovismo”

Osservando il teatrino dell’ennesima campagna elettorale del nulla, si può dire che l’ultimo grido dell’illusione nuovista stia assumendo le logore sembianze della cosiddetta società civile.

 Rilanciata dal magistrato Ingroia, uomo per tutte le stagioni, e ancor più da Beppe Grillo, l’idea di utilizzare un congruo numero di persone estranee, o apparentemente tali, al mondo della politica professionale, rappresenta un buon veicolo per traghettare la propria navicella verso l’agognato approdo del Parlamento. D’altro canto, il presupposto che esista una sostanziale diversità cromosomica tra persone comuni e politici di professione, su cui si basa l’attuale nuovismo, rappresenta una credenza piuttosto diffusa e radicata, alla quale anche i grandi partiti cercano di dare una adeguata risposta attraverso tutta una serie di candidature stile foglie di fico raccattate qua e là. Sostanzialmente molti individui, nella loro onesta ingenuità, sono portati a ritenere che un appartenente alla citata società civile, una volta entrato nella stanza dei bottoni, offra molte più garanzie sul piano dell’onestà e della ricerca del bene comune rispetto a un politico di lungo corso.

Tutto questo, però, senza considerare che i gravi problemi che affliggono la democrazia italiana non derivano dalla scelta intenzionale dei singoli soggetti eletti ad ogni livello, bensì essi scaturiscono da un sistema che è gradualmente scivolato verso un baratro che è oramai sotto gli occhi di tutti. Un sistema che nessun uomo politico ha creato a tavolino, complottando contro il popolo, alias società civile, ma che un po’ tutti hanno contribuito ad alimentare restando ancorati ad una concezione del consenso elettorale fondato su una progressiva espansione dell’intervento pubblico, quindi della spesa, in ogni ambito della società. Per questo motivo, da liberale, mi cambierebbe ben poco se ad esercitare l’attuale, catastrofico controllo operato dallo Stato su oltre metà della ricchezza nazionale fosse un governo composto dai vecchi marpioni dei partiti o da una genia di integerrime persone comuni. Anzi, e so con ciò di esprimere un concetto in questo momento piuttosto impopolare, tra un politico di lungo corso che, tuttavia, riuscisse a tagliare di un colpo 5 punti di spesa pubblica ed un immacolato paladino del nuovismo dilagante che promettesse di gestire in modo più onesto l’attuale, insostenibile perimetro pubblico, non avrei alcun dubbio a dare il mio appoggio al primo.

Sotto tale profilo il vero cambiamento, la vera rivoluzione copernicana dovrebbe scaturire dal coraggio politico di chi, compresa l’insostenibilità economica e finanziaria dell’attuale collettivismo strisciante, una volta giunto nella stanza dei bottoni operasse finalmente quelle imponenti riforme liberali di cui necessita da molto tempo il nostro Paese. Il nuovo, da questo punto di vista, significherebbe la riduzione di quell’eccesso di spesa e di tassazione che soffoca ogni forma di sviluppo. E se a realizzarlo fosse un uomo “civile”, piuttosto che un reduce della Prima Repubblica, francamente importa poco. Ciò che conta è che finalmente qualcuno abbia il coraggio di riformare, questo sì, un sistema che è fallito ovunque sia stato applicato. Errare è umano, ma perseverare - pur sotto le spoglie di un qualche appartenente alla società civile - sarebbe veramente diabolico.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:02