La trattativa sul sistema elettorale è ben lontana dall’avvicinarsi ad un approdo certo. Nel ginepraio delle rispettive convenienze, il Pd, dopo l’uscita di Prodi («mai il proporzionale»), in vista dell’alleanza con Sel di Vendola, cerca di ottenere un alto premio di maggioranza per la coalizione vincente, mentre la certezza del Pdl di non riuscire alle prossime elezioni ad impugnare la vittoria spinge Berlusconi, tornato per l’occasione a braccetto di Casini, a puntare sul sistema tedesco proporzionale che gli garantirebbe comunque di partecipare alla formazione di un governo di larga coalizione.
Tanto più che, nell’ipotesi di portare la votazione in aula a palazzo Madama, alcuni parlamentari del Pd, potrebbero dare il loro voto favorevole al ritorno al proporzionale. La materia resta dunque tutta sul tavolo delle trattative e lo è anche un dibattito che, dietro il nobile intento di interrogarsi su come coniugare la riforma elettorale e la qualità della politica, nasconde i rispettivi appetiti partitici e, a maggior ragione, dovrebbe affrancarsi da un approccio miope e dalle strettoie della semplicistica contrapposizione tra lista bloccata e voto di preferenza. Le scorciatoie ideologiche e opportunistiche, di cui fisiologicamente la politica si nutre, conducono soltanto alla disinformazione, e troppo spesso strizzano l’occhio alla richiesta da parte dell’elettorato di comode catalogazioni manichee che stabiliscano illusori paletti sulla modalità di voto migliore e più rappresentativa.
Ovunque, tra i paladini del voto di preferenza, di cui la Regione Toscana ha rappresentato l’avanguardia dopo aver per prima inventato i ‘nominati’ dei listini bloccati, è un levare di scudi a favore della partecipazione dei votanti, del diritto di accedere a strumenti che consentano la scelta diretta dei loro rappresentanti in Parlamento. Nel 2010 il presidente della Toscana Enrico Rossi si dichiarava pronto sia ad affossare l’esperienza delle primarie che a spendersi personalmente per la «riforma che consenta l’espressione della preferenza unica» o il collegio uninominale. Dichiarazione di intenti rilanciata a stretto giro dall’Idv toscano che, con la proposta di legge 21 prevede l’abrogazione delle leggi elettorali precedenti a favore della preferenza unica e a scapito dello strumento delle primarie definito «gravido di costi che potrebbero essere evitati proprio con il ripristino del voto di preferenza».
Sul perché mai si debba “affidare la scelta degli eletti alle segreterie dei partiti e non ai cittadini” si è interrogato da subito il super sindaco rottamatore Matteo Renzi, il cui slogan “Un voto, una preferenza, la mia nuova legge elettorale” ha cementato la strada dell’alternativa manichea fra il sistema della preferenza e quello a scheda bloccata. Un interessante tentativo di strappare il confronto dall’abbeveratoio dei luoghi comuni pseudoriformatori è contenuto in un documento, curato dall’ex sindaco di Grosseto del Pdl Alessandro Antichi, che meriterebbe attenzione e dovrebbe uscire dall’ambito del dibattito interno al gruppo consiliare del Pdl toscano per accedere a quello nazionale. I curatori del testo pongono un quesito concreto: “Quanta attinenza ha con la realtà e l’esperienza pratica dell’uso della preferenza in Italia l’assunto teorico che la addita come il migliore strumento alla partecipazione diretta dei votanti?” La risposta è che ci si dimentica di considerare è che «gli elettori italiani non si comportano nello stesso modo di fronte alla possibilità di far uso del voto di preferenza personale.
Poiché si tratta di preferenza “facoltativa” (ovvero che l’elettore può decidere di esprimere o non esprimere a favore di un candidato, senza che la mancata espressione abbia conseguenze sulla validità del voto di lista), di fatto accade che l’elettorato abbia comportamenti molto diversi secondo dell’area geografica in cui risiede». Interessante lo spaccato che ci viene restituito proprio dalle elezioni regionali del 2010 che, ad eccezione della Toscana e della Campania, fotografa un’Italia ancora una volta spacchettata in tre realtà: Un Nord in cui il tasso di preferenza è arrivato al 30,2%, un Centro con il 41,5% e il Sud che ha toccato la punta massima dell’80,3%. È più che legittimo azzardare l’ipotesi che l’inclinazione dell’elettore settentrionale e centrale a premiare la lista con un voto di opinione generalista tutt’al più concentrato sul candidato premier, man mano che si scende lungo lo stivale, ceda il passo alle scelte personalistiche, frutto delle condizioni strutturali e culturali che informano il rapporto tra elettorato e politici.
Anche i dati specifici regionali puntellano la rappresentazione di un paese uno e trino: «In Lombardia – riporta il documento - su 100 elettori che esprimono un voto di lista valido solo 23 lo esprimono accompagnandolo con l’indicazione di una preferenza per un candidato. I tassi di preferenza del Piemonte e del Veneto sono invece piuttosto simili, rispettivamente 35% e 35,2%. Il dato della Liguria è, al ccontrario, più alto, precisamente del 42%». Interessante e in apparenza incongruo il dato sull’Emilia Romagna dove il 25,7% di assegnazione della preferenza risente della passata tradizionale presenza del Partito comunista Italiano in cui la preferenza ideologica per il partito ha sempre prevalso. Una percentuale non molto inferiore a quella della Toscana dove l’ultima votazione regionale del 2000 ha registrato un 28,6%. In Umbria e Marche, al contrario, i valori si impennano rispettivamente al 53% e al 49%, nel Lazio al 51%. Il sud si conferma il territorio d’adozione delle preferenze: in Campania si è arrivati al 90,6%, in Calabria e in Basilicata all’84% e all’85,9%, per finire con un 75,7% della Puglia. Sebbene, quindi, l’aggregazione dei tassi di preferenza dell’elettorato di tutte le regioni in cui si è votato raggiunga un totale del 54,2% le notevoli differenze geografiche nel ricorso alla preferenza da parte degli elettori escludono una spartizione a metà delle percentuali a livello nazionale.
Senza soffermarsi sulle differenze tra eletto e nominato un’istantanea del genere non fa, ovviamente, che avvalorare l’idea di un collegamento diretto tra qualità della politica e modalità con cui il candidato accede alle istituzioni e confermare quanto la natura della personalizzazione dei rapporti tra elettore e candidato insita nel sistema delle preferenze sia per lo più di scambio reciproco, clanico-clientelare e di condizionamento spesso mafioso
Eppure i dati sulla distribuzione geografica delle inclinazioni degli elettori al ricorso alle preferenze non dovrebbero restringere gli argini della discussione tanto da presentare la scelta tra voto di preferenza e lista bloccata come l’antitesi risolutiva tra il bene ed il male. Anche perché l’effettiva rappresentatività tra cittadino ed eletti rappresenta una chimera, un’illusione sulla di qualità dei rappresentanti politici stessi. Più utile sganciare il dibattito dalla logica dell’antinomia tra “preferenza sì/ preferenza no” e iniziare a parlare di “preferenza come” sulla opzioni precorribili nell’uso di questo strumento elettorale. Prendendo come punto di inizio quelle liste flessibili che consentono all’elettore di esprimere un voto di preferenza per un candidato fermo restando che l’ordine della lista può essere modificato a favore di uno o più candidati soltanto a certe condizioni: o, come accade in Austria, se un nome raccoglie metà dei voti necessari ad ottenere un quoziente o un sesto dei voti raccolti dal partito in una circoscrizione. Oppure, nel caso del Belgio, a patto che il numero dei voti personali sia pari al totale dei voti ottenuti dal partito diviso i seggi da distribuire più uno. Più rigido il sistema in Finlandia e in Polonia in cui è addirittura escluso il voto di lista a favore di un unico candidato presente nella lista stessa.
Il ventaglio di soluzioni tecniche percorribili, è senz’altro molto ampio ma un tentativo di riflettere seriamente su alcuni correttivi o accorgimenti che salvino il salvabile delle preferenze, salvaguardando democraticamente la responsabilità del patito, la volontà dell’elettore e di conseguenza la maggiore legittimità dell’eletto, senza a avvilire il voto politico e di opinione della lista, è un esercizio, questo sì, per nulla ozioso.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:51