
Il compito che mi è stato assegnato è quello di illustrare aspetti della nostra amministrazione della giustizia che, rispetto ad altri paesi democratici, sembrano presentare le maggiori criticità sotto il profilo della protezione dei diritti umani. Scelta difficile per chi come me ha effettuato ricerche su questi problemi per oltre 40 anni. Indicherò quindi molto sommariamente solo due dei molti aspetti che differenziano il nostro assetto giudiziario da quello dei degli altri paesi a consolidata democrazia e che, al contempo, sono essenziali per una adeguata tutela dei diritti civili nell'ambito giudiziario:
1) la mancanza di un'efficace protezione dei cittadini sia da iniziative penali ingiustificate, sia dagli irrimediabili danni che tali iniziative ad essi arrecano.
2) l'assenza di reali valutazioni di professionalità e diligenza dei nostri magistrati come causa della drammatica lentezza della nostra giustizia. Una lentezza che è tanto elevata, da rappresentare un sostanziale diniego di giustizia per il cittadino.
In qualsiasi paese un uso avventato o indebito dell'iniziativa
penale può produrre, e spesso produce, devastanti conseguenze sullo
status sociale, economico, familiare, politico e della stessa
salute dell'indagato o imputato. Conseguenze cui non si rimedia con
una sentenza di proscioglimento che giunge spesso a distanza di
molti anni. Purtroppo si tratta di un fenomeno molto diffuso nel
nostro paese. Un fenomeno che ci viene ricordato ricorrentemente
dai giornali (come ad esempio la recente assoluzione dell'On.
Formica dopo 17 anni) ma di cui non si conoscono le esatte
dimensioni.
Dimensioni che sono parzialmente note solo per alcune categorie di
cittadini di particolare visibilità. È una sola, delle molteplici
disfunzioni generate dall'adozione in Costituzione
dell'inapplicabile principio dell'obbligatorietà dell'azione penale
e dalla conseguente mancanza di qualsiasi delle forme di
responsabilità per le attività dei pubblici ministeri che sono
invece presenti in altri paesi democratici. A differenza di quanto
avviene in Italia in altri paesi a consolidata democrazia l'assetto
del PM, le regole relative all'esercizio dell'azione penale e
all'uso dei mezzi di indagine sono specificamente mirate anche ad
evitare che pervengano in giudizio processi che non siano fondati
su solide basi probatorie e che i cittadini possano da ciò
risultare gravemente danneggiati. Faccio solo alcuni sommari
accenni di ordine comparato.
Ho partecipato ad alcune iniziative di preparazione della riforma
del PM inglese nel 1985 e ricordo quanto questo aspetto della
tutela dei cittadini influisse sulla definizione della riforma, tra
le altre cose si decise, ad esempio che il PM non dovesse essere
coinvolto nelle indagini per essere quindi in grado di valutare
obiettivamente il materiale probatorio raccolto dalla polizia e
decidere se vi fossero effettivamente gli estremi dell'azione
penale. Un modo per evitare, cioè, lo svilupparsi di quella che
veniva chiamata "la sindrome del cacciatore" che può portare chi è
direttamente impegnato nelle indagini e nella ricerca del colpevole
a scambiare semplici indizi per affidabili elementi di prova; non
solo ma stabilì che l'attività di PM nei processi più gravi fosse
svolta da un'avvocato libero professionista assunto ad hoc di volta
in volta.
Adottando questa misura il legislatore del 1985 voleva, tra
l'altro, rendere più cogente lo stesso obiettivo che lo aveva
portato ad escludere il PM dalle attività investigative. Voleva
cioè che per i crimini di maggiore gravità le decisioni su come
condurre le attività forensi di fronte alla corte venissero
ulteriormente "allontanate" dalla fase delle indagini ed
assoggettate ad un ulteriore ed indipendente filtro posto
nelle mani di un avvocato privato. Si decise inoltre, di fissare
regole molto articolate per determinare le priorità nell'esercizio
dell'azione penale unitamente alla previsione che il PM non debba
iniziare l'azione se non esistono concrete possibilità di ottenere
un condanna (l'evidentiary test - sia per proteggere il cittadino
innocente, sia anche "per non sprecare le limitate risorse a
disposizione delle giustizia penale").
Ovviamente la conformità dei comportamenti del PM a quelle regole
viene poi considerata nella valutazione della sua professionalità.
Cosa questa che capita anche in altri paesi democratici ed in forma
accentuata negli USA - ed a riguardo è particolarmente
significativo un discorso tenuto ai Procuratori federali degli
Stati Uniti nel 1941 dall'allora U.S. Attorney General Robert
Jackson, poi divenuto notissimo giudice della Corte Suprema, nel
quale egli affermava che se si lascia al PM la possibilità di
scegliere i casi da perseguire e la possibilità di indirizzare a
suo piacimento le indagini di polizia si lascia a lui anche la
possibilità di scegliersi, per ragioni personali o altre, le
persone da perseguire e di dirigere quindi le indagini alla ricerca
di prove per i possibili reati da lui/lei commessi. Affermava che -
per la protezione dei diritti del cittadino e la stessa democrazia
- questo è il maggiore pericolo insito nel ruolo del PM.
I poteri concessi al nostro PM - tutti in vario modo collegati
al principio di obbligatorietà - sono tali da rendere quel pericolo
segnalato da Jackson di gran lunga più grave ed incombente per il
cittadino che in qualsiasi altro paese a consolidata democrazia.
Indico solo gli aspetti più rilevanti: a) A differenza dagli altri
paesi democratici i nostri PM non solo godono di una completa
indipendenza esterna ma ciascuno di essi gode di un'ampia
indipendenza anche all'interno degli uffici cui appartiene.
Certo, a livello dei singoli uffici di procura vi è formalmente
una struttura gerarchica. Di fatto però i poteri di direzione e
supervisione dei capi degli uffici vengono severamente limitati da
alcune leggi, e più ancora dagli orientamenti del sindacato della
magistratura e dalle regole di ordine generale che da molti anni
sono fissate dal CSM - ove i rappresentanti del sindacato dei
magistrati sono in stragrande maggioranza - per disciplinare il
funzionamento interno degli uffici del PM: regole per la
distribuzione del lavoro, per le avocazioni, per le sostituzioni
nei casi di impedimento e moltissimi altri aspetti ancora. Non a
caso si è sviluppato un marcato processo di personalizzazione delle
funzioni del PM quasi che anche per lui valga il principio
del giudice naturale precostituito per legge.
Tanto che riferendosi al fenomeno della frammentazione e
diversificazione dei criteri che di fatto governano le indagini e
l'iniziativa penale da parte delle diverse procure e dei singoli
sostituti, Giovanni Falcone la definiva come una "variabile
impazzita del sistema". b) A differenza dei suoi colleghi di altri
paesi democratici il PM italiano può di sua propria sponte iniziare
e condurre attività investigative di qualsiasi tipo su qualsiasi
cittadino, cioè su ciascuno di noi, quando ritiene che sia stato
commesso un crimine (art. 330 cpp). A differenza del giudice che ha
un ben circoscritta competenza territoriale, il PM può invece
promuovere e svolgere di sua iniziativa e nella pienezza dei suoi
poteri indagini su qualsiasi persona e su qualsiasi ipotesi di
reato, ovunque commesso e che lui stesso ipotizza.
Ha cioè una competenza territoriale illimitata. c) Nel condurre le
indagini, la polizia deve operare chiedendo istruzioni al PM e
seguendo in via esclusiva e vincolante le sue direttive (art. 347
cpp). Nella fase investigativa, cioè, il ruolo del nostro pubblico
ministero è di fatto quello di un poliziotto indipendente, cosa che
non è resa meno preoccupante e meno anomala in democrazia per il
solo fatto che il poliziotto indipendente si chiami pubblico
ministero. d) Lo Stato ha l'obbligo di finanziare tutte le spese
che i pubblici ministeri considerano necessarie per condurre le
attività investigative. Ciò in quanto qualsiasi limite relativo ai
mezzi di indagine da utilizzare e sui criteri di spesa
costituirebbe un limite all'osservanza del principio costituzionale
di obbligatorietà dell'azione penale. e) I PM non portano nessuna
responsabilità per ogni e qualsiasi iniziativa investigativa e
azione penale cui danno inizio, anche se anni dopo le loro
iniziative risultano del tutto infondate e ingiustificate.
In ogni caso essi possono pretendere, con immancabile successo,
che il loro sospetto che un crimine fosse stato commesso imponeva
comunque loro di agire. In altre parole l'obbligatorietà
dell'azione penale trasforma ipso jure qualsiasi loro decisione
discrezionale in materia di indagini e di azione penale in un "atto
dovuto", escludendoli da quelle specifiche responsabilità che sono
invece previste in altri paesi democratici (come valutazioni
negative sulla loro professionalità per iniziative penali
azzardate, responsabilità per spese di indagini inutili e costose).
A differenza degli altri paesi democratici, quindi, da noi la
maggior parte delle decisioni relative alle politiche criminali non
viene presa nell'ambito del processo democratico ma delegata senza
trasparenza alcuna ai componenti di un corpo burocratico che non ne
porta responsabilità alcuna.
(1 - continua)
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:45