Il Csm e la dittatura delle procure

In nessun altro paese democratico, l’indipendenza del pm è tanto ampia e la sua responsabilità tanto limitata quanto in Italia. 

I parziali tentativi sinora fatti di modificare alcune delle caratteristiche del pm italiano, fin qui sommariamente descritte, hanno sempre incontrato la ferma opposizione del sindacato della magistratura e delle sue rappresentanze che nel Csm costituiscono la maggioranza. Una opposizione che sinora ha avuto successo per il rilevante potere contrattuale che da vari decenni la magistratura organizzata ha nei confronti della classe politica, un fenomeno sulle cui cause non posso qui dilungarmi. 

Ciò nonostante, qualsiasi innovazione volta ad introdurre forme di responsabilizzazione del pm viene considerata una minaccia per l’efficiente difesa della legalità e per il corretto funzionamento dell’assetto democratico. Se quegli stessi criteri di assetto e funzionamento del pm italiano dovessero essere utilizzati per valutare i livelli di protezione della legalità degli altri paesi a consolidata democrazia, nessuno di loro supererebbe l’esame di legalità (non la Francia, non l’Inghilterra, non l’Olanda, non la Germania, non l’Austria, non il Belgio, non gli Stati Uniti, e così via).

Non sono mai stati raccolti ufficialmente dati complessivi sul numero dei cittadini italiani che hanno subito iniziative giudiziarie e che dopo molti anni sono stati assolti, né tantomeno degli effetti spesso devastanti ed irrimediabili che quelle iniziative hanno avuto sulla loro vita sociale, economica, familiare e sulla loro stessa salute. Certo la stampa ci informa di molte delle iniziative penali di un certo rilievo, ma raramente ci informa degli esiti di quelle iniziative e degli effetti che esse generano sulla vita dei cittadini. A mia conoscenza gli unici dati raccolti con una certa organicità e per un limitato periodo sono quelli pubblicati in un libro scritto nel 2002 da un parlamentare, l’on. Giovanardi, con rifermento agli 84 deputati della Democrazia Cristiana inquisiti tra il 1992 ed il 1993. Solo una esigua minoranza è stata condannata. A tutto il 2002, cioè dopo un decennio, solo 54 degli 84 indagati era stato giudicato in via definitiva, 12 procedimenti erano ancora pendenti a vari livelli di giudizio e ben 13 riguardavano parlamentari che nelle more del processo erano deceduti. Dei 59 parlamentari già giudicati ben 49, cioè l’83%, erano risultati innocenti, mentre solo 10 avevano ricevuto una condanna.  

Per quanto l’autore non abbia pubblicato aggiornamenti di quei dati sappiamo che il numero degli assolti è certamente aumentato (ad esempio per le assoluzioni avvenute dopo tre lustri degli on. Mannino e Gava). Delle conseguenze sulla vita degli inquisiti-assolti sappiamo solo che quasi tutti sono stati definitivamente eliminati dalla vita politica. Certo, per la maggioranza dei semplici cittadini inquisiti e poi assolti le conseguenze di ordine economico, sociale e personale possono essere molto più gravi di quelle di quei parlamentari. Tuttavia anche limitandosi a riflettere su quei soli dati ciò che colpisce, e che credo non possa non preoccupare chi coltiva ideali di tipo liberale, è che quegli eventi non abbiano avviato una riflessione su quale sia la dimensione del fenomeno con riferimento a tutti i cittadini e quali siano le caratteristiche del  nostro assetto giudiziario che consentono il verificarsi di quel tipo di eventi. 

Per molto meno in altri pesi democratici si sono fatte inchieste parlamentari e si è dato l’avvio a profonde riforme. Da ultimo in Francia dove dopo l’iniziativa penale nei confronti di  quattordici cittadini accusati di pedofilia e poi risultati innocenti (non dopo molti anni ma dopo poche settimane) il magistrato responsabile dell’accaduto è stato convocato in Parlamento per spiegare pubblicamente le sue iniziative e le sue decisioni. Un evento che poi si è collegato anche ad iniziative di riforma che sono sfociate nella riforma costituzionale del luglio 2008 (che ha tra l’altro mutato la composizione del Csm francese riducendo la rappresentanza dei magistrati nel suo seno - che ora è minoritaria - con l’obiettivo di ridurre gli orientamenti  corporativi di quell’organo). Mi rendo conto che cose del genere sono impensabili in Italia, tanto che quando il magistrato francese fu interrogato in parlamento, il Csm italiano, non quello francese, espresse pubblicamente la sua censura nei confronti della Francia ritenendo che in quel Paese si fosse verificata una  grave violazione dell’indipendenza della magistratura e della stessa divisione dei poteri. Per potenziare la tutela dei diritti civili  nell’ambito processuale non bastano certo le esortazioni rivolte ai pm perchè usino moderazione nell’esercizio dei loro incontrollati poteri. Occorrono invece riforme che, come avviene in tutti gli altri paesi a consolidata democrazia, collochino le decisioni sulle priorità nell’uso dei mezzi di indagine e sull’esercizio dell’azione penale nell’ambito del processo democratico e vincolino i pm e lo stesso governo al rispetto di quelle decisioni. 

Sono ben consapevole di aver considerato solo un aspetto delle molteplici disfunzioni generate dall’adozione dell’inapplicabile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’attuale assetto del pm, e cioè quello che più direttamente riguarda la protezione dei diritti civili nell’ambito processuale. 

Passo al secondo argomento. Uno degli aforismi più citati in materia di giustizia è che justice delayed is justice denied (un detto che viene attribuito al primo ministro inglese Gladstone) e cioè che la giustizia resa in ritardo equivale a un sostanziale diniego di giustizia per il cittadino. 

I ritardi della nostra giustizia sono tali da rendere il diniego di giustizia di cui è vittima il cittadino italiano tra i più gravi al mondo, come puntualmente ci hanno ricordato le due ultime relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario pronunziate dai Presidenti della Suprema Corte di Cassazione Vincenzo Carbone e Ernesto Lupo. Per i ritardi della nostra giustizia abbiamo ricevuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) il doppio delle condanne ricevute dagli altri paesi dell’Europa occidentale nel loro insieme.  

Di conseguenza, poichè la Cedu non riusciva più a smaltire il crescente numero di cause per ritardi provenienti dall’Italia, dal 2001, con la c.d. “legge Pinto”, abbiamo dovuto trasferire dalla Cedu alle nostre Corti di appello il compito di giudicare dei ritardi e di stabilire l’entità dei risarcimenti. Ma anche le Corti di appello hanno ormai grosse difficoltà a far fronte al crescente numero dei ricorsi tanto che  sono di già numerose anche le cause promosse dai cittadini italiani presso la Cedu per i ritardi con cui le nostre Corti d’appello giudicano le cause riguardanti i ritardi. 

È un circolo vizioso dal quale non sembra si riesca ad uscire, mentre da circa 20 anni il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ricorrentemente mette in mora la giustizia italiana affermando che la sua inefficienza è tale  da pregiudicare la natura stessa di stato di diritto del nostro paese.  

Le brutte notizie sull’inefficienza della nostra giustizia non finiscono qui. Se ampliamo la visuale a livello mondiale e consultiamo i dati forniti dalla Banca Mondiale sulla lentezza della giustizia nelle cause riguardanti la riscossione dei crediti scopriamo che la nostra giustizia non solo è la più lenta in Europa, ma è anche più lenta di un elevato numero di paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.  

È un gravissimo vulnus per i diritti del cittadino ed è anche un enorme danno per  la nostra economia sia perchè scoraggia gli investimenti sul piano interno, sia perché rende il nostro Paese fortemente svantaggiato nell’attrarre investimenti stranieri. Un danno economico che gli studi condotti della Banca d’Italia e della Confindustria  calcolano nell’ordine di decine di miliardi di euro l’anno. 

Tra le cause di questa abnorme inefficienza del nostro sistema giudiziario si indicano l’irrazionale distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio, i ritardi nella modernizzazione tecnologica dell’apparato giudiziario, l’elevato numero degli avvocati e altre ancora. Da circa 40 anni io sostengo che tra le principali cause di inefficienza deve essere inclusa l’assenza di effettive valutazioni della professionalità e diligenza  dei nostri magistrati.  

Non ho certo il tempo per fornirvi dati analitici del fenomeno, peraltro reperibili nelle mie pubblicazioni. Mi limito a ricordare che nel periodo 1968-2007 le valutazioni negative ai fini delle promozioni sono variate nei vari Csm tra lo 0,4 e lo 0,9% ed hanno di regola riguardato solo magistrati che avevano gravi condanne disciplinari o procedimenti penali pendenti.  Nel 2006-2007 il legislatore ha voluto porre rimedio a questo fenomeno con una legge che stabilisce regole di valutazione molto più severe (a mia conoscenza tra le  più severe d’Europa). 

Paradossalmente, ma non senza ragioni, l’effetto è stato quello di rendere le valutazioni da parte dei consigli giudiziari e del Csm ancor meno selettive: tra l’ottobre 2007 ed il luglio 2010, infatti, sono state effettuate 2297 valutazioni e solo tre magistrati, di cui uno già in pensione, non hanno ricevuto valutazioni positive (da meno dell’1 per cento si è così passati o poco più dell’1 per mille). In buona sostanza il Csm ha di fatto effettuato le promozioni sulla base del mero decorrere dell’anzianità di servizio, anche per i magistrati fuori ruolo che da molti o moltissimi anni non esercitavano funzioni giudiziarie. 

Così tutti i magistrati italiani, caso unico tra i paesi democratici con reclutamento simile al nostro, raggiungono per volontà del Csm il livello massimo della carriera, dello stipendio, della pensione e della buon uscita. Così, mentre prima che il Csm decidesse di effettuare promozioni generalizzate, al vertice della carriera vi era solo l’1,1% dei magistrati in servizio (più o meno quello che ancora accade negli altri paesi europei), da molti anni quella percentuale è salita addirittura fino al 23-25% dei magistrati in servizio.

(continua)

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:53