La Spending Review non è sufficiente

Il governo Monti si gioca le sue ultime chance di credibilità sul piano della cosiddetta spending review. Ma, dato il tempo relativamente breve che manca alla scadenza naturale della legislatura, quest'ultimo non potrà che dare dei segnali nella giusta direzione, senza tuttavia consentire al sistema paese di sperimentare sul campo gli effetti di un risparmio strutturale che solo nel corso degli anni successivi, eventualmente, si manifesteranno.

Tuttavia, sempre nel caso l'esecutivo abbia l'intenzione e la volontà di effettuare dei tagli sostanziosi al nostro ingombrante stato burocratico ed assistenziale, i mercati finanziari potrebbero premiarci, anticipando una manifesta inversione di tendenza introdotta sul versante strategico delle uscite pubbliche, giunte  oramai a superare ampiamente metà del reddito nazionale disponibile. Ora, occorre premettere che all'interno di un sistema democratico non appare proponibile l'uso dell'accetta per riportare la spesa entro limiti accettabili, al di fuori di una guerra o di un effettivo default dello stato.

Ma nemmeno la linea fin qui perseguita dal governo Monti, escluso il capitolo delle pensioni, è sufficiente a tagliare in modo strutturale la spesa medesima. Si è infatti cercato, come d'altronde hanno tentato di fare tutti i governi negli ultimi venti anni, di razionalizzare il funzionamento della enorme macchina politico-amministrativa in tutte le sue infinite articolazioni, senza però metterne in discussione l'ampiezza e le competenze. Ciò, molto in sintesi, non può che ridursi ad un magro tentativo di risparmiare sulle matite e sulla carte per le fotocopie, poichè una buona parte delle uscite dello stato, al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, finisce in stipendi, consulenze e sovvenzioni a molti carrozzoni che lasciati nel mare magnum del mercato sarebbero rapidamente costretti chiudere i battenti. E se così stanno le cose, l'unico modo  per risolvere il problema è quello di una sostanziale riduzione del perimetro statale, tagliando gradualmente i rami secchi di un sistema pubblico ipertrofico.

Si tratterebbe quindi, senza licenziare nessuno, evitando pericolose derive sociali, di eliminare e/o limitare alcune competenze pubbliche, riducendone le relative piante organiche man mano che i vari addetti vengono mandati in pensione. Prendiamo il caso della scuola, in cui appare evidente che vi è una presenza sovrabbondante dei cosiddetti bidelli. Si potrebbe abbatterne drasticamente il numero, facendo firmare ai dipendenti già in organico l'impegno, proprio per evitare di perdere il lavoro, ad accettare di essere trasferiti in un altro settore dello stato in cui vi fosse una effettiva carenza di addetti. Ma bisognava aver imboccato la strada della gradualità già da molto tempo, evitando da far raggiungere alla spesa complessiva dello stato gli attuali livelli, degni di un Paese del socialismo reale.

Ora, sotto la spada di Damocle di un default tutt'altro che scongiurato dai tecnici, si potrebbe giungere alla drammatica conclusione che solo usando la paventata accetta sul piano dei tagli sia possibile salvare l'Italia dalla catastrofe. Ma forse, in questa particolare eventualità, ci vorrebbe più pragmatismo impopolare che accademia. Anche perchè, una cosa è annunciare con piglio cattedratico l'esigenza di ridurre le spesa, altro è ridurla sul serio, evitando di spacciare per tagli delle semplici razionalizzazioni che lasciano il tempo che trovano. 

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:16