Ecco perché Beppe Grillo va rispettato

È sbagliato voler ricondurre Grillo e il suo movimento ad un fenomeno episodico, folkloristico, di catalizzazione di una sorta di rabbia e indignazione collettiva. Piaccia o no, non è così e continuare a considerarlo con sufficienza, soprattutto da parte di una sinistra che, nelle sue varie diramazioni e sfaccettature, continua ad essere e a comportarsi come il braccio strutturato e l'estremo baluardo del regime partitocratrico, equivale ad offendere l'intelligenza, prima di tutto di se stessi. 

Grillo e i sostenitori delle cinque stelle vanno visti e valutati per quello che sono, e cioè una forza politica che, non ci interessa se bene o male, esprime una visione politica e pone interrogativi politici. Detto questo, né a difesa né a discapito, sorgono legittime alcune considerazioni. 

Innanzitutto, non è corretto paragonare Grillo e il suo movimento ai radicali. Anzi, per dirla tutta, tra i due, al di là delle apparenze, c'è un solco profondo, un abisso. Anche se i commentatori di politica spesso e volentieri fingono di dimenticarlo, il radicalismo in Italia ha una lunga storia, con radici che allignano nel garibaldismo, nell'anticlericalismo repubblicano, nel liberalismo, nel pensiero massonico, comprendente almeno quattro fasi. La prima è riconducibile al periodo tra la fine Ottocento e la prima decade del Novecento (si pensi a battaglieri esponenti riformatori come Agostino Bertani, Felice Cavallotti, Ettore Sacchi, Ernesto Nathan, l'economista Antonio De Viti De Marco, Romolo Murri). La seconda è connessa all'antifascismo salveminiano di Non mollare, Giustizia e Libertà e al Partito d'Azione. La terza, in stretto rapporto con la seconda, rimanda al gruppo di intellettuali riunitosi nel 1955 attorno al settimanale "Il Mondo" di Mario Pannunzio e alla nascita, come costola del Pli, sempre nello stesso anno, del Partito radicale con uomini come Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, il venticinquenne Marco Pannella (d'estrazione liberale e già presidente prima dell'Ugi, Unione goliardica italiana, e poi dell'Unione nazionale degli studenti universitari, Unuri). Infine, la quarta riguarda l'attuale Partito radicale, originatosi nel 1962, da una scissione interna al partito, dallo stesso Pannella insieme a Gianfranco Spadaccia, Franco Roccella, Mauro Mellini, Angiolo Bandinelli, Massimo Teodori. 

Contrariamente ai radicali, Grillo e i suoi mancano, quindi, di solide radici e sembrano navigare a vista. Se confronto e parallelismo va fatto non è con i radicali, semmai con il movimento dell'austriaco Jörg Haider che, cavalcando l'onda emotiva di un populismo nazionalistico, riuscì ad ottenere nel 1999 il 30% dei consensi elettorali (franato, tuttavia, nel giro di poco tempo). Uno sguardo alle dichiarazioni, quasi sempre avventate e rancorose, del leader delle cinque stelle, la dice lunga sul suo giacobinismo esasperato (con la minaccia di allucinanti processi sommari emuli delle gogne inscenate delle guardie rosse maoiste nei drammatici anni della sedicente "rivoluzione culturale" e culminanti nelle tragiche "rieducazioni" dei laogai, tristemente popolosi gulag cinesi), sullo scarso senso di democrazia, esterno (non basta promuovere petizioni o referendum per essere realmente democratici) ed interno. A proposito, come mai il movimento delle cinque stelle non si è mai riunito in un congresso in cui, magari come è tradizione radicale, chiunque, purché iscritto, può intervenire, proporre, dare un contributo costruttivo al dibattito? E, ancora, perché vietare ai "grillini" la partecipazione ai confronti televisivi? Per timore di controbattere argomentazioni o per incondizionata sottomissione al pensiero unico e indiscutibile del leader genovese (caso Pizzarotti docet)? 

Andiamo avanti. Il "grillismo", checché se ne dica, manca di una visione europea, federalistica, come ad esempio quella esposta, in tempi non sospetti, da Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni nel "Manifesto di Ventotene". L'Europa di Grillo non obbedisce altro che a particolarismi e ad egoismi. È arroccata sulle argillose faglie del presente, incapace d'essere prefigurazione del futuro, diffidente e chiusa com'è rispetto a processi (doverosi quanto inevitabili) d'integrazione e al multiculturalismo (si pensi alle quantomeno discutibili uscite del genovese sui rom e i sinti, in una parola sugli zingari). E non è finita. Si dirà che Grillo e i suoi hanno a cuore l'ambiente. Davvero? L'impressione è che venga ricalcato un modello di pseudo ecologismo dimostratosi fallimentare, cioè il modello di una contrarietà pregiudiziale e pregiudizievole priva di quella forza propositiva di cui, oggi più che mai, c'è necessità, urgenza. Si può, pure, essere d'accordo sul No Tav o sulla diffidenza nei confronti degli Ogm (chi scrive, tanto per essere chiari, sul secondo punto lo è) ma, ad esempio, risulta palese che la questione dei rifiuti non si risolve soltanto con la raccolta differenziata (applicata, tra l'altro, nel nostro paese in maniera a dir poco risibile) e con vaghi ideologismi mentre l'immondizia continua ad accatastarsi in montagne, inquinate e inquinanti, destinate, se continua così, a fare concorrenza, per elevatezza, alla catena himalayana.

Detto questo, Grillo non va affatto demonizzato (e perché mai?) ma, al contrario, va degnamente considerato, lo ripetiamo, dal punto di vista politico e non del costume, con meritato rispetto. Va incalzato, non respinto. Sarebbe grave, gravissimo, se non così non fosse. Mai come ora, in fondo, Grillo e i "grillini" hanno bisogno, e non è paradossale, di aiuto, di quell' aiuto che può venire da chi concepisce la politica non come amministrazione del contingente ma come doverosa, affascinante (certo, anche estenuante) costruzione (e anticipazione) del possibile.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:01