A quanti intrecci romanzeschi assomiglia quanto accade nel metaverso? Una frontiera, ma senza un tangibile orizzonte, una dama con le pedine impazzite e l’uomo scalzato dalla plancia di comando. Nella cronaca zampillano ormai sempre più casi di qualche Ulisse che compie il folle volo nel mare virtuale di Internet, con la sua nave lambita dai pericolosi flutti virtuali che si trasmutano in pece soffocante. È di pochi giorni la notizia filtrata dai tabloid inglesi di una ragazzina, di cui viene lasciata trapelare solo l’età (sedici anni) che accusa (chi?) di essere stata stuprata nel metaverso, al prezzo di una sofferenza fisica ed emotiva pari a quella che si vivrebbe nel mondo di qui. E anche questa volta è difficile definire la modalità. Tuonano le filippiche di chi punta il dito contro questa realtà (è una realtà?) indefinita e ingovernabile, con regole ancora troppo aleatorie. Nell’ultima vicenda di cronaca galeotto è stato un visore per la realtà virtuale indossato dalla vittima, imbozzolata in un gioco immersivo. Nelle ipotesi pare che il suo avatar sia stato assaltato da molti altri. E qui incalza un altro interrogativo: quale sia l’identità di questi sedicenti ologrammi, altro rompicapo per la polizia britannica e per ogni decisore che si trova a dover legiferare su una materia tanto fluida eppure magmatica.
Per le prime discussioni sul metaverso dobbiamo slittare indietro al 1993, quando il Village Voice ospita in colonna un’analisi del giornalista Julian Dibbell dal titolo incandescente “Un rapimento nel cyberspazio”, facendo eco ad altri due stralci: “Code” di Lessing e “Chi controlla Internet” di Goldsmith e Wu. Poi la cortina fumogena dell’indifferenza è calata sull’opinione pubblica, perché lo spazio virtuale è troppo allettante. Le analisi degli studiosi citati avrebbero dovuto inzeppare un pungolo, visto che ormai la maggioranza si sta lanciando a grande velocità in questa autostrada senza guardrail. Il cyberspazio, nelle colonne di Dibbell, alletta perché permette un ritorno allo “stato di natura”, come quello incorniciato da Hobbes nel Leviatano, liberato dai lacciuoli delle leggi e dove la socialità non è condicio sine qua non per il benessere. Ma questa serenità adamitica per paradosso viene perduta dalla necessità di sopravvivere proprio alla mancanza di regole. E per coloro che si avventurano in questo periglioso mondo dei balocchi vale sempre il monito di non lasciarsi gabbare da una luciferina élite tecnologica che distribuisce le pedine. Rimanere impigliati nel tranello è il tempo del guizzo dell’entusiasmo iniziale.
L’approdo al metaverso, però, viene sperimentato non soltanto per esigenze ludiche, ma perché si tenta il sentiero senza staccionata verso un mondo alternativo in cui liberarsi dall’asfissia delle regole sociali. “Regolamentazione” è la boa che si vuole superare, con l’obiettivo di andare ad amalgamarsi a confraternite tecnocratiche, forti del “potere” di saper giocare. Anche se le insidie dei “giochi di ruolo” si affastellano secondo dopo secondo.
Un’altra plaga di pericolo è costituita dalla chatroom LambdaMoo. Un click potrebbe essere una condanna a qualche sopruso e spesso queste “stanze” diventano il porcile per numerosi soprusi, come le violenze sessuali. A tal proposito la psicoterapeuta Nina Jane Patel ha messo sul banco la sua esperienza: testando la realtà virtuale, dopo appena sessanta secondi un branco di avatar l’ha assalita. L’incubo è che non ci sono più barriere di sicurezza. Mente e corpo diventano osmotici e gli effetti esperiti sono indiscernibili. Meta, spesso messa alla gogna a causa di questi episodi, ha provato a difendersi creando una nuova impostazione, “Personal Boundary”, confini personali per imporre un cuscinetto di sicurezza su Horizon Worlds e Horizon Venus. Ma forse più che un cuscinetto ci vorrebbero dei bastioni; non quelli delle metrature che segnano distanze, bensì quelli di una solida educazione che non spinge a lanciarsi in fughe ma a ruotare come stelle nel proprio posto nel mondo.
Aggiornato il 08 gennaio 2024 alle ore 13:02