C’è qualcosa di profondamente inquietante, e ormai perfino indecente, nel modo in cui una parte rilevante della politica e della diplomazia statunitense continua a raccontare la guerra russa contro l’Ucraina, come se si trattasse di una crisi fra pari, di un malinteso storico da sanare con sorrisi, foto ricordo e frasi di circostanza. Le dichiarazioni attribuite all’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, secondo cui “la Russia resta pienamente impegnata a raggiungere la pace in Ucraina”, non sono solo politicamente miopi: sono moralmente sbagliate e storicamente false. Non esiste alcun “impegno per la pace” da parte di Mosca che non passi, come condizione preliminare, dal ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino sovrano. Tutto il resto è propaganda, una narrazione costruita ad arte dal Cremlino e ormai ripetuta meccanicamente da interlocutori occidentali che sembrano più ansiosi di chiudere un dossier scomodo che di difendere principi fondamentali come la legalità internazionale, l’inviolabilità delle frontiere e la responsabilità per i crimini commessi. La guerra non è scoppiata per un incidente diplomatico o per una presunta “provocazione” ucraina: è stata decisa a Mosca, pianificata nei dettagli e lanciata con l’obiettivo esplicito di cancellare l’Ucraina come Stato indipendente. Ed è Mosca, e solo Mosca, che può fermarla in qualsiasi momento, semplicemente ordinando alle proprie forze armate di tornare oltre il confine riconosciuto internazionalmente. Fingere che la pace dipenda da compromessi simmetrici equivale a chiedere alla vittima di negoziare le condizioni della propria aggressione.
In questo contesto, l’entusiasmo con cui si rilanciano segnali cosmetici, come l’ipotesi di nuovi incontri o le frasi melliflue di funzionari russi, appare come una resa culturale prima ancora che politica. Il teatrino del “prossimo incontro a Mosca”, evocato con leggerezza da Kirill Dmitriev, è emblematico: mentre le città ucraine vengono colpite da missili e droni, mentre civili vengono uccisi o deportati, un emissario del Cremlino può permettersi di scherzare sul luogo del prossimo vertice, forte della consapevolezza che una parte dell’Occidente è disposta a recitare la parte del partner ragionevole pur di evitare decisioni difficili. Ma le cosiddette “proposte di pace” russe, ripetute in varie forme fin dall’inizio dell’invasione su vasta scala, non sono altro che un ultimatum mascherato: prevedono il ritiro ucraino dal Donbas, inclusa la parte mai occupata dalla Russia, il che significherebbe smantellare le linee difensive costruite in anni di guerra per proteggere il resto del Paese e aprire la strada a nuove offensive; prevedono la rinuncia di fatto alla sovranità, attraverso limitazioni politiche e militari; e, aspetto forse più scandaloso di tutti, prevedono un’amnistia generalizzata per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi dalle forze russe, un colpo mortale non solo alla giustizia per le vittime, ma all’intero sistema del diritto internazionale.
Accettare una simile impostazione non significherebbe “salvare vite”, come spesso si sente ripetere con retorica ipocrita, ma condannare l’Ucraina a una morte lenta, trasformandola in uno Stato fantoccio, permanentemente esposto al ricatto militare e politico di Mosca. Per l’Ucraina, accettare queste pseudo-condizioni di pace equivarrebbe semplicemente a smettere di esistere come soggetto politico autonomo; per l’Europa e per il mondo, significherebbe sancire il principio che l’aggressione armata paga, che i confini possono essere ridisegnati con la forza e che i crimini più gravi possono essere cancellati in nome di una stabilità apparente. È difficile immaginare un precedente più pericoloso. Eppure, invece di chiamare le cose con il loro nome, Washington sembra sempre più incline a inseguire l’illusione di un dialogo “pragmatico” con Vladimir Putin, come se il problema fosse la mancanza di canali di comunicazione e non la volontà deliberata del Cremlino di usare la guerra come strumento di politica estera. Ogni volta che un funzionario occidentale parla di “sforzi russi per la pace” senza ricordare chi ha invaso chi, ogni volta che si legittima l’idea di concessioni territoriali come prezzo inevitabile della fine delle ostilità, si manda un messaggio devastante non solo a Kyiv, ma a tutte le capitali che potrebbero un giorno trovarsi nel mirino di un vicino più forte e più cinico.
La pace non è un esercizio retorico, né un compromesso costruito sulla rimozione della realtà: è il risultato della fine dell’aggressione e del ripristino della legalità. Tutto il resto è una scorciatoia pericolosa, che oggi si consuma sulle macerie ucraine e domani potrebbe presentare il conto a chi oggi, con sorprendente leggerezza, finge di non capire.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
Aggiornato il 22 dicembre 2025 alle ore 11:07
