Pace a Gaza, parla Einat Wilf: “Unrwa più pericolosa di Hamas”

Mentre Vance atterra in Israele per incontrare Benjamin Netanyahu e la Jihad islamica sembra accettare l’intesa raggiunta a Sharm el-Sheikh la scorsa settimana, l’Occidente continua a dividersi sulla fragilità di quella che più che una tregua appare una pausa armata. Sicché le cancellerie europee oscillano tra prudenza diplomatica e sostegno strategico. Una Babele di sentimenti dalla quale si leva una voce fuori dal coro, al contempo autorevole, quella di Einat Wilf, già ufficiale dei servizi segreti israeliani e parlamentare alla Knesset per Indipendenza, il partito di Ehud Barak. Laurea ad Harvard, Mba presso l’Insead in Francia, dottorato a Cambridge, vanta un curriculum di tutto rispetto che l’ha portata ad essere una delle voci più preparate, ma soprattutto più provocatorie, del panorama israeliano.

A pochi giorni dall’accordo raggiunto grazie a Trump le piazze non accennano a fermarsi. Secondo lei perché?
Non si è mai trattato davvero del conflitto né delle vittime. Il mondo arabo, e oggi una parte della sinistra occidentale, si interessa ai palestinesi solo quando sono in guerra con Israele; è l’unica cosa che li rende “interessanti”.
La Palestina, per gran parte di chi la sostiene, è sempre stata un concetto astratto, legato all’idea di distruggere lo Stato di Israele. È per questo che si dice “dal fiume al mare”.
Molti manifestanti hanno creduto che il loro sogno di un mondo senza Israele potesse finalmente realizzarsi. Un tempo si voleva eliminare gli ebrei in nome della salvezza religiosa, poi della purezza razziale, oggi per la salvezza dei diritti umani.
Non è un caso che tutte le parole “malvagie” come razzismo, colonialismo, apartheid, genocidio siano state associate a Israele, mentre tutte le parole “buone” come giustizia, uguaglianza, diritti vengano attribuite alla sua negazione, cioè il “palestinianismo”.
Ma l’accordo promosso dal presidente Trump ha fatto venir meno la possibilità di un mondo senza Israele. E chi credeva di trovarsi a un passo da quell’utopia oggi è furioso.

Lei è stata consigliera per gli esteri di Shimon Peres, membro della Knesset per Indipendenza: ideologicamente, dunque, non è vicina a Likud e a questo governo. Cosa pensa di Netanyahu? Molti l’hanno addirittura paragonato ad Hitler.
Ci tengo a distinguere Netanyahu in quanto primo ministro, dall’uso di Netanyahu come pretesto.
Sulle sue politiche sono piuttosto critica, ma la mia osservazione principale riguarda il 7 ottobre: la gente non ha ancora piena consapevolezza delle atrocità commesse quel giorno. Quando la avrà, si chiederà come Israele sia riuscito ad avere una risposta tanto contenuta. Molti hanno diffuso il numero di bombe utilizzate da Israele, ma nessuno lo ha messo in relazione con il numero reale delle vittime. Se lo si facesse, ci si renderebbe conto di quanto l’Idf sia stato attento nel proprio operato.
Parliamo di un’area completamente militarizzata, con tunnel, combattenti e civili armati.
La guerra è stata condotta male si, praticamente persa perché, alla fine, Hamas è ancora in piedi.

Dopo esserci incontrati un mese fa a Tel Aviv mi sono confrontato con alcuni giornalisti israeliani. Mi hanno detto che esistono dei rapporti fatti da delle soldatesse dell’IDF che erano di guardia nei pressi del confine di Jabalya: dicevano di aver visto delle esercitazioni dentro la Striscia, di aver notato movimenti sospetti nei mesi e nei giorni antecedenti il 7 ottobre.
Alla fine degli anni ’80 e all’inizio dei ’90 prestai servizio nell’intelligence israeliana, nell’unità 8200, la divisione tecnologica teoricamente più avanzata. Lì pensai che avremmo potuto chiudere la maggior parte delle agenzie di intelligence israeliane e fare qualcosa di molto più semplice: ascoltare semplicemente ciò che gli arabi dicono pubblicamente.
Perché, incredibilmente, nella cultura araba ciò che si dice in privato non ha praticamente alcun valore; conta solo ciò che si dice pubblicamente, in quanto diventa vincolante. Una concezione molto diversa da quella occidentale.
C'è una tendenza a dare priorità all'intelligence che costa molto denaro ma, nel mondo arabo, in realtà, l’open-source intelligence è una risorsa estremamente preziosa. L’intelligence portata da queste giovani soldatesse era basata proprio su ciò che vedevano con i loro occhi, dunque la forma più bassa di intelligence. Hamas lo sapeva bene e ci ha giocato sopra.
Ho fatto ricerche, guardando i titoli anni, mesi, settimane, giorni prima della strage. La leadership di Hamas diceva costantemente: “stiamo preparando il giorno del ritorno, la liberazione. Il giorno del ritorno è vicino”. I servizi di intelligence israeliani non dovevano indagare chissà cosa: era tutto lì, alla luce del sole.
E infine: molti credevano che bastasse comprare la quiete con trasferimenti di denaro; errore che anche Netanyahu ha commesso.

A proposito di questi finanziamenti: crede che Netanyahu abbia finanziato il terrorismo?
Lui pensava che questo ci avrebbe garantito la calma, ed è proprio ciò che ha venduto al popolo israeliano. Guardi: per anni, ed era vero fino al 7 ottobre, gli anni sotto Netanyahu sono stati tra i più tranquilli nella storia di Israele. Si era convinti di poter “comprare” la calma con il denaro. Adi (Adi Schwartz, ndr) ed io continuavamo a scrivere saggi e libri avvertendo che sarebbe finita male. Perché, se riversi miliardi in un’ideologia che vuole distruggerti, non stai comprando la pace, stai comprando la prossima guerra. Ma c’era anche un altro aspetto: Netanyahu tendeva a sottovalutare i palestinesi come nemico. Hamas mandava messaggi del tipo: “Dateci solo più soldi, è questo l’unico problema.” Allora il capo del Mossad andava in Qatar, Netanyahu mandava un ministro, e poi tornavano dicendo: “Abbiamo raggiunto nuovi accordi.” Se guardi i titoli prima del 7 ottobre, parlano tutti dei “nuovi accordi”. E cosa significavano in realtà? Più soldi, e Hamas sarebbe rimasto tranquillo. Il più grande errore di Netanyahu è stato proprio questo.

Cosa pensa del piano di pace di Trump?
Il piano in sé è ragionevole: il primo obiettivo era ottenere la liberazione di tutti gli ostaggi; il secondo riguarda l’intera visione di pace, un’espansione degli Accordi di Abramo, dove paesi arabi e Israele cooperano su economia, affari e tecnologia, tenendo i palestinesi lontani dai titoli per un paio d’anni. Israele deve sostenere, come ha sempre fatto nella storia, qualsiasi iniziativa di pace promossa da Trump, senza dimenticare che il piano riguarda anche de-radicalizzazione e coesistenza. Israele deve assicurarsi che ogni discussione sulla riforma radicale dell’Autorità Palestinese o sulla de-radicalizzazione di Gaza includa questo principio: non esiste alcun “diritto al ritorno” in Israele. Dopodiché l’Unrwa deve essere chiusa, perché alimenta e legittima tutto ciò.

Ci sono infatti molti rapporti, come quelli della Un Watch, che provano rapporti tra i vertici dell’Unrwa e membri di spicco di Hamas.
L’Unrwa è letteralmente l’infrastruttura del “palestinianismo”: educa i palestinesi all’idea che Israele non debba esistere, al mito della condizione di rifugiati perpetui e del “ritorno”. Registra milioni di persone come rifugiati, anche se non lo sono secondo alcuno standard internazionale, e si rifiuta di reinsediarli finché Israele non scomparirà. Il problema dell’Unrwa, anche se Hamas sparisse domani, rimarrebbe. Sarò sincera: eliminare l’Unrwa è più importante che eliminare Hamas, perché Hamas è il prodotto del sistema educativo e organizzativo dell’Unrwa. Se domani Hamas non ci fosse ma l’Unrwa rimanesse, quel sistema continuerebbe a creare organizzazioni pronte a uccidere ebrei e israeliani. Eliminando l’Unrwa, invece, Hamas perderebbe il suo carburante, il sostegno e la base ideologica. Questa è la priorità su cui Israele deve concentrarsi d’ora in poi. Non dobbiamo però cadere nella trappola dei precedenti Accordi di Abramo, dove si pensava di poter ignorare la crescita e l’influenza del “palestinianismo” ai propri confini.

Aggiornato il 24 ottobre 2025 alle ore 12:43