A Nir Oz a tu per tu con Rita Lifshitz: “Il 7 ottobre 2023 abbiamo vissuto l’inferno. Siamo gente di pace costretta a vivere nella guerra. L’Unrwa? Convinsi il Governo svedese a definanziarla. Hamas vuole far profondare il suo popolo”. Sono già le undici e mezza di mattina quando arrivo al kibbutz di Nir Oz. Un orario terribile perché già alle 9 nel Negev l’aria si fa irrespirabile e le temperature elevate, unite a una consistente umidità, ti sfiancano dopo appena due passi. I giovani soldati dell’Idf, dopo un controllo del mezzo, lasciano parcheggiare l’autista e io metto piede per la prima volta lì dove quasi nessuno lo mette più da due anni. Ad accoglierci c’è Rita Haukilahti Lifshitz, un tempo abitante del kibbutz di Nir Oz. Rita si presenta con un sorriso appena accennato, di quelli dove gli occhi sgonfi e spenti tradiscono il timido movimento delle labbra. Indossa una maglia nera con la scritta “Bring Them Home Now”, il fiocco giallo degli ostaggi, una piastrina con una scritta in ebraico che si nota uguale pure sulla borsa di tela nera. Tutto di Rita rimanda a quel fatidico 7 ottobre di quasi due anni fa.
Il suo corpo stesso è un manifesto, una testimonianza muta, un peso morale sulla coscienza di chi dimentica. E, mentre varco la soglia della prima casa, le cui pareti odorano ancora di bruciato e il pavimento è un ammasso disordinato di cocci di ceramica e frammenti di vetro, mi chiedo chi avesse mangiato su quelle ceramiche, chi avesse bevuto da quei frammenti di vetro, chi avesse vissuto un tempo in quella casa sventrata di cui restava solo uno scheletro di ricordi e silenzio. Ogni passo risuona nel vuoto, ogni frammento sembra raccontare una storia di vite spezzate, di normalità infranta. Eppure, nonostante tutto, c’è Rita, immobile e testimone, come se la memoria stessa del kibbutz fosse concentrata in quel corpo fragile ma forte, trattenuto ma indomabile. “Qui vivevano Carmela e Noya Dan”, mi dice Rita. “Carmela aveva 80 anni ed era nonna della piccola Noya, che di anni ne aveva solo 12 quando fu uccisa. Era venuta a passare la notte dalla nonna mentre la madre, Galit, stava al kibbutz di Kissufim. Lì invece viveva Bracha Levinson, trucidata anche lei dai terroristi: la sua morte è stata ripresa in un video e diffusa sul suo profilo Facebook. L’orrore trasformato in spettacolo”. Rita non era a Nir Oz quella mattina: era partita la sera prima per Tel Aviv. “Alle 6.30 suonarono le prime sirene, ma qui siamo abituati. Da quando Hamas governa (e opprime) Gaza, viviamo sotto il fuoco dei missili. Ogni kibbutz, ogni scuola, ogni casa, ogni fermata dell’autobus ha uno shelter: qui siamo in zona rossa e dunque abbiamo solo 15 secondi per metterci al riparo. Un giorno ne lanciarono quasi 800 in 24 ore. La nostra vita era scandita dagli allarmi e dalle sirene, e con il tempo avevamo imparato a conviverci. Quella mattina pensavamo fosse l’ennesimo attacco. Ma fu diverso”.
Perché? “Diverso perché, per la prima volta, Hamas riuscì a oltrepassare i valichi. I miliziani irruppero in prossimità di Nahal Oz, che dista meno di un chilometro da Gaza City. Le prime a essere uccise furono due soldatesse di guardia: non fecero in tempo a dare l’allarme. Intorno alle 6.45 s’avvertirono i primi spari vicino a Nir Oz, probabilmente quelli che uccisero Gadi e Judith, soliti ad andare a camminare di prima mattina nei campi limitrofi. Alle 6.49 entrarono nel kibbutz. Non eravamo pronti, pensavamo sarebbe finita in pochi minuti ma non fu così. Dieci giovani ragazzi uscirono dai rifugi per combattere ma dieci non sono niente contro centinaia di terroristi. Fu l’inizio dell’inferno. Alla fine, di 393 abitanti, 117 furono uccisi o presi in ostaggio e l’85 per cento delle nostre case distrutte dalle fiamme”. Ed è mentre mi racconta, mentre camminiamo in mezzo alle macerie che ci imbattiamo in un’altra casa (cioè quel cumulo di detriti, mattoni e ferraglie che ne resta) con delle foto impolverate di due bambini e di una donna. Lì svolazza un nastro giallo legato a un altro nero, simbolo degli ostaggi uccisi in cattività nella Striscia dopo la ritirata dei miliziani.
Non conoscendo l’ebraico chiedo a Rita chi siano questi bambini e la donna in foto? “Sono Ariel e Kfir Bibas, di 4 anni e 9 mesi, con la madre Shiri, 32 anni. Rapiti e poi uccisi a mani nude dai terroristi. I corpi furono restituiti solo il 20 febbraio 2025. C’è un terribile video sul web che mostra la restituzione dei corpi”. E infatti quello stesso giorno Hamas diffuse un video dove si vedeva un convoglio della Croce rossa avanzare tra due file di miliziani armati, fino a raggiungere un palco con sopra quattro bare: quelle dei fratellini Bibas, della madre Shiri e di Oded Lifshitz, suocero di Rita. Lì, un uomo dall’aspetto sinistro, con kefiah e fucile, si preparava a consegnare le salme. Davanti invece, a osservare la consegna dei corpi, una folla dai capi coperti. Non da kefiah ma da hijab, chador e via andando. Donne. Donne con i telefonini alzati intente a filmare, al pari di come i loro mariti alzavano il mitra al passaggio del veicolo. E bambini. Troppi bambini. Un video che spettacolarizzava nuovamente la morte, propagandando il terrore, nel pieno stile di Fathi Hamad, il Goebbels di Gaza, regista degli show dell’orrore e già ministro dell’Interno di Hamas. E, mentre ascolto attonito questa storia, mentre guardo lo spettacolo macabro di quel video, mentre fisso quei volti impressi su una foto ormai ingiallita dalla polvere e dal tempo, un boato scuote l’aria. Poi un altro. E ancora un altro. Per cinque interminabili minuti il tempo, il più temuto dei nemici, scorre al ritmo cadenzato delle bombe. Cinque minuti di rumori assordanti che presto si spengono nel silenzio. “Questa è una tragedia”, dice Rita. “Noi non siamo contro i palestinesi, noi vogliamo convivere. Vogliamo la fine di questo conflitto, vogliamo poter tornare nelle nostre case e vogliamo riabbracciare i nostri cari. Il nostro unico desiderio è quello di riavere i 48 ostaggi. Della mia comunità ce ne sono nove, cinque ormai morti e quattro ancora vivi. Siamo gente di pace che da anni è costretta a vivere nella guerra”. Crede ancora nella soluzione dei due popoli, due Stati? “Sì. Israele ha diritto di esistere come terra libera e di pace. E lo stesso vale per la Palestina. I diritti dei bambini israeliani devono essere gli stessi di quelli palestinesi: allo studio, alla famiglia, alla libertà, alla vita. Ma questo sarà possibile solo se Hamas sarà distrutto: opprime il suo popolo e, ora che sta sprofondando, cerca di trascinarlo con sé”.
È la logica del martirio, giusto? “Fin da piccoli i bambini vengono educati all’odio verso Israele e gli ebrei, crescono conoscendo solo violenza e vendetta. Come si può fondare uno Stato sull’odio?”. E da lì l’affondo all’Unrwa: “Ha supportato e nutrito Hamas. Ha a disposizione miliardi di dollari (1,4 miliardi di dollari nel solo 2024, ndr) in gran parte provenienti da Governi occidentali, i quali diventano così corresponsabili dato che i legami fra l’Unrwa e Hamas sono sempre più evidenti. Non si può sostenere un’agenzia che coopera con i terroristi, che li tutela e permette che restino in posizioni di rilievo all’interno della società civile (si pensi a Fathi al-Sharif, ndr). Serve il definanziamento dell’Unrwa e di tutti coloro che da anni vedono e sentono ma si comportano come se fossero ciechi e sordi. Quando il Governo svedese visitò Nir Oz, lo accompagnai tra i resti delle nostre case: rimasero sconvolti. Una volta tornati in Svezia hanno tagliato i fondi all’Unrwa. Un gesto concreto per mettere davvero fine a questa guerra. D’altronde, cos’è il terrorismo se non fondamentalismo e soldi?”. Effettivamente la storia insegna che il terrorismo altro non è che una forma di idolatria che venera in modo spasmodico la diade Dio-Denaro. Quando non si riesce a spegnere la febbre del fanatismo allora diventa urgente chiudere i rubinetti che lo alimentano, che lo nutrono, che lo preservano, che lo consentono. E ancora: “Chi opera all’interno della Striscia per conto delle organizzazioni non governative è costretto a sottostare a ciò che vuole Hamas. Ci sono state proteste, molti in preda alla disperazione hanno provato a ribellarsi, ma Hamas ha risposto con il sangue. I dissidenti vengono catturati, torturati, uccisi. La gente è arrivata a denunciarsi a vicenda alle autorità. A Gaza non c’è spazio per il dissenso e il coraggio lo si paga a caro prezzo”.
E sugli aiuti, Rita? In Occidente molti giornalisti accusano Israele di bloccare i convogli con gli aiuti umanitari. “Gli aiuti entrano a Gaza, ma Hamas li saccheggia. Danno buona parte delle provviste a chi supporta attivamente Hamas o ai miliziani. Quello che resta viene invece rivenduto sul mercato nero. Le famiglie non possono permettersi beni che spetterebbero loro per diritto, e così nasce la politica della fame”. Mentre l’ascolto in religioso silenzio, una donna, Lena Trufanov, già ostaggio di Hamas, avanza in mezzo alla foresta di ruderi. Si china, e, con delicatezza, poggia a terra due ciotole. S’avvicinano due gattini che cominciano a mangiare all’ombra di un albero rigoglioso, puntellato qua e là da dei fiori di un giallo vivace. In mezzo alla distruzione, la vita prova ancora a farsi spazio. Un ritorno alla quotidianità, timido ma dignitosamente ostinato. Un tentativo di ripartire. “Spero che l’Occidente possa aprire gli occhi, vedere ciò che non vede o che non vuole vedere. Abbiamo bisogno che il mondo veda, senta e comprenda. È ciò che più mi auguro”. Lì la voce di Rita si spegne e mi saluta con un sorriso appena accennato ma ancora ricco di speranza. Intorno a me, al di là dell’albero, dei gatti, di Lena Trufanov, restano le macerie, le foto impolverate, i frammenti di vetro e i cocci di ceramica. Resta il silenzio pesante di un luogo che continua a gridare. Resta l’immagine di un luogo sospeso tra pace e guerra, tra memoria e oblio, tra verità e pericolose menzogne.
Aggiornato il 10 ottobre 2025 alle ore 10:38
