
Lo scorso 5 giugno 2025, Papa Leone XIV ha nominato Joseph Lin Yuntuan vescovo ausiliare di Fuzhou, nella Cina sud-orientale. Precisamente una settimana dopo, l’11 giugno 2025, il Governo cinese ha accettato la nomina vaticana e il vescovo ha potuto prendere possesso del proprio ufficio. La notizia, passata abbastanza sotto silenzio dai media nostrani, in realtà non sarebbe così irrilevante e anzi potrebbe essere indicativa di un cambio di rotta significativo dei rapporti sino-vaticani. Com’è noto, nel 2018, Vaticano e Repubblica popolare cinese avevano firmato, per volontà di Francesco e con la regia del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, un “accordo segreto” per risolvere la decennale tensione (per usare un eufemismo) tra la Chiesa cattolica cosiddetta Patriottica, cioè quella ufficiale e allineata all’agenda del regime, e la Chiesa cattolica “sotterranea”, più fedele al papa e quindi perseguitata perché potenzialmente “sovversiva” e piegata alle pericolose democrazie liberali dell’Occidente.
Nonostante le forti proteste del cardinale Joseph Zen Ze-kiun, l’arcivescovo emerito di Hong Kong che ha vissuto sulla propria pelle la violenza del regime comunista cinese, questo accordo, i cui termini sono ad oggi ignoti, è stato rinnovato più volte, nel 2020 (dopo che Zen cercò, invano, di incontrare Francesco per convincerlo a rivedere i patti), nel 2022, e infine nel 2024. In virtù di questo accordo, mentre regnava ancora Jorge Mario Bergoglio, sette vescovi cinesi precedentemente ordinati senza l’approvazione papale sono stati reintegrati nella piena comunione con Roma, due dei quali risultavano però essere sposati. Sebbene, come si è detto, i termini dell’accordo siano ancora ignoti, potremmo dire che l’accordo ha tutta l’aria di essere un segreto di Pulcinella.
Il Vaticano si era di fatto sottomesso al Partito: i comunisti sceglievano i vescovi e Roma semplicemente esprimeva il diritto di veto. Quanto avvenuto in questi giorni è sintomatico di una svolta significativa nelle relazioni tra il Vaticano e la Cina. Infatti, la Santa Sede non solo ha invertito il modello portato avanti finora, secondo il quale era Pechino ad agire unilateralmente e il Vaticano sembrava costretto ad accettare, ma ha persino nominato un vescovo del clero considerato “clandestino” e il Governo cinese ha persino accettato la nomina. A confermare l’approccio diverso portato avanti da Papa Leone nella questione sino-vaticana, bisogna ricordare un altro fatto particolare: subito dopo la morte di Francesco, e quindi in piena sede vacante, la Cina aveva installato due vescovi senza aspettare l’approvazione romana (addirittura una di queste era già guidata da un ordinario scelto da Roma), ma ad oggi il Vaticano non ha dato il proprio riconoscimento, lasciando di fatto la decisione del Partito illegittima. La situazione nell’arcidiocesi di Fuzhou è considerata particolarmente delicata per diverse ragioni.
Per diversi anni, Roma e Pechino non riuscivano a concordare su chi fosse effettivamente il vescovo diocesano. Dopo l’accordo Vaticano-Cina del 2018, una parte consistente del clero di Fuzhou rifiutò di aderire all’Associazione patriottica cattolica cinese. E così, invece di allentare la tensione, l’accordo non aveva fatto altro che peggiorarla. Oggi, a capo della diocesi di Fuzhou ci sono Joseph Cai Bingrui e Joseph Lin Yuntuan: il primo è il vescovo ordinario, ben visto dai funzionari statali locali (secondo alcune fonti, sarebbe stato lui a persuadere le autorità ad accettare Lin), mentre il secondo è il vescovo ausiliario, esponente della Chiesa “sotterranea”. Un lavoro di compromesso, dunque, che potrebbe essere sintomatico tuttavia di una presa di posizione più netta e decisa da parte del nuovo pontefice. Alla luce di quanto accaduto a Fuzhou, Papa Leone XIV potrebbe trovarsi di fronte a una rara finestra di opportunità. Ma affinché questa non si chiuda rapidamente, occorre una linea chiara, pastorale ma risoluta. Con un regime come quello cinese, che non esita a perseguitare sacerdoti e fedeli, non si tratta di provocare, ma nemmeno di compiacere. Il prossimo rinnovo dell’accordo segreto è previsto per il 2026.
Nel frattempo, il Papa potrebbe esprimere pubblicamente sostegno alla Chiesa “sotterranea”, garantendo protezione morale e materiale ai suoi sacerdoti, magari tramite vie discrete ma efficaci: fondi riservati, mezzi di formazione online, reti di solidarietà internazionale. Potremmo aspettarci nei prossimi mesi un gesto altamente simbolico e pastorale, magari una lettera apostolica rivolta ai cattolici cinesi, per confermare nella fede chi soffre in silenzio, ricordando che Pietro non li ha dimenticati. Non sarebbe un atto ostile verso Pechino, ma un atto di giustizia verso i cattolici dimenticati di quelle regioni del mondo. Non si tratta qui di “convincere” il regime (cosa pressoché impossibile), ma di dare alla Chiesa in Cina la dignità che le spetta, che non è certo quella di una collaborazionista. Perché solo una Chiesa libera, anche nella clandestinità, può essere fermento di autentico cambiamento, non solo spirituale ma anche politico, nel cuore dell’Impero. E questo i leader cinesi lo sanno bene. Infatti, come documentato da più fronti, il regime comunista cinese – formalmente ateo e antireligioso – sta cercando da anni di contenere la cosiddetta “febbre cristiana”, ossia una diffusione del vangelo su territorio cinese senza precedenti e che, entro il 2030, dovrebbe ammontare a 295 milioni. La Cina diverrebbe così il Paese con più cristiani al mondo. Un dato che desta non poca preoccupazione nel Partito, perché potrebbe contribuire notevolmente all’implosione del regime comunista.
Aggiornato il 26 giugno 2025 alle ore 10:00