I timori di Putin: attento ai reduci!

Che cosa accadrà dal giorno dopo della fine del conflitto russo-ucraino? Quando, cioè, i soldati russi rimpatriati dal fronte, tolta la divisa, prima o poi si interrogheranno sul senso di un regime che gestisce il Cremlino come una sorta di corte medievale, e non come uno Stato moderno? Una cosa è certa: Vladimir Putin avrà un serio problema di veterani, con molti di loro affetti da disturbi mentali e comportamentali, dopo aver fatto da cavie e da bersagli umani indifesi nella moderna, spietata guerra dei droni. Tutti costoro sono destinati a esercitare una forte pressione sul regime, avanzando richieste ineludibili in merito all’erogazione di sussidi economici adeguati al costo della vita; ai riconoscimenti di status (terre fertili da coltivare; riserva di posti di lavoro nell’Amministrazione pubblica; e così via); a cambiamenti concreti da introdurre in seno alla società russa. Tutte pretese legittime, ma che non potranno trovare accoglimento in un’economia russa caratterizzata da un elevato debito pubblico e da un’inflazione a doppia cifra, conseguenza diretta della rigida austerità derivante da un’economia di guerra. Per fare un confronto storico, nel 1922 la Gran Bretagna si dovette confrontare con 1,5 milioni di disoccupati, di cui l’assoluta maggioranza era costituita da reduci della Grande guerra non abili al lavoro. L’esperienza britannica dice che le così dette “khaki elections” (che si svolgono nei regimi democratici durante i periodi bellici o postbellici) generano una forte spinta a favore delle riforme sociali: quindi, anche in un sistema dittatoriale chiuso, come quello putiniano, non sarà certo facile per l’oligarchia al potere ignorare la protesta più che scontata dei veterani, esperti in combattimento e che non hanno alcun timore o remora di ricorrere alla violenza.

Si veda il precedente storico del fascismo, imperniato sul cardine eversivo del reducismo, che faceva leva sugli ex militari tornati dal fronte, esperti in assalti alla baionetta, con gli armadi, soffitte e cantine piene di armi e di esplosivi non restituiti. E nella Russia post-bellica molta disoccupazione verrà dalla dismissione di fabbriche d’armi, che hanno favorito nuovi redditi e occupazione in medio-piccole città di provincia, in cui sono stati installati nuovi impianti produttivi, a spese dello Stato: per di più, i due fenomeni concorrenti della perdita di posti di lavoro e del ritorno dei veterani sono destinati a infoltire i ranghi del crimine organizzato nei centri urbani. Tra l’altro, la missione di pacificazione a tutto campo, avviata dal recente tour di Donald Trump nei paesi arabi produttori di petrolio, ha fatto scendere di parecchi punti il costo del barile di greggio, impoverendo ulteriormente le entrate petrolifere di una Russia sotto embargo. Nello scenario attuale dei finti/veri colloqui di pace in Turchia tra Russia e Ucraina, si sono infranti i due sogni simmetrici di Vladimir Putin, da un lato, e di Donald Trump, dall’altro. Infatti, il tycoon aveva puntato molto in alto, a un improbabile Premio Nobel per la pace, dato che si era auto-convinto all’inizio del suo mandato di ottenere in sole 24 ore la pace in Ucraina. Speranze che, dopo oltre 100 giorni di mandato, sono andate completamente deluse, malgrado le rassicurazioni ricevute da Putin, a seguito dell’ultima, lunga telefonata in diretta, in merito all’elaborazione di un problematico “memorandum” senza interruzione delle ostilità.

Simmetricamente, Putin ha visto dal canto suo svanire (per ora!) il sogno di separare l’America dalle sorti di Kiev, avendo sperato nell’interruzione delle forniture di armi americane all’Ucraina e nella conseguente sconfitta di Volodymyr Zelensky. Se tutto ciò fosse accaduto, il regime avrebbe potuto sfilare vittorioso sulla Piazza Rossa il 9 maggio, in occasione dell’ottantesimo anniversario della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale. Del resto, che cosa ci si poteva aspettare, se non un clamoroso insuccesso, da un piano mal congegnato, come quello proposto dal mediatore americano, Keith Kellogg, che postulava una capitolazione simil-hitleriana dell’Ucraina? Infatti, secondo quella sciagurata bozza di accordo, Kiev avrebbe dovuto cedere tutti i territori (parzialmente) occupati e, in pratica, cessare di esistere come nazione. Il tutto, senza nemmeno stare lì a porsi il problema di chi avrebbe poi dovuto andare a presidiare una buffer-zone non si sa quanto ampia tra i due nemici giurati. Per una missione così a rischio, è del tutto inutile sperare nei volenterosi, o nell’Onu, senza il pieno consenso della Russia che, per come stanno messe le cose, non verrà mai! Al momento, nessuno sa come affrontare la questione delle garanzie da dare a Kiev per la sua sicurezza, in modo da impedire in futuro, tanto per fare un esempio, una nuova aggressione russa a partire dalla Bielorussia. A tutt’oggi, quel che si può affermare con certezza, è che l’Amministrazione Trump colluda con Putin per un congelamento del conflitto, sullo stile dell’armistizio degli anni Cinquanta tra le due Coree che dura fino a oggi. Ciò su cui, però, Putin non ha smesso di sognare è la sostituzione in corsa di Zelensky con un candidato più malleabile per Mosca, come l’ex presidente ucraino Petro Porošenko, che potrebbe tornare a giocare il ruolo dello sfidante alle future elezioni presidenziali ucraine, una volta abolita la legge marziale, prorogata fino al 6 agosto. Di certo, Putin considererebbe un successo politico ottenere, nell’ordine: la smilitarizzazione dell’Ucraina; la depoliticizzazione dei suoi vertici militari e l’uscita di scena di Zelensky.

Quest’ultimo, come misura preventiva, ha nominato Ambasciatore a Londra l’ex comandante in capo delle sue forze armate, Valerij Zalužnyj, sottraendolo così alla prima linea. Il generale, infatti, particolarmente amato dai suoi soldati, otterrebbe secondo i sondaggi più del 40 per cento delle preferenze al primo turno delle future elezioni presidenziali e, sulle condizioni per porre fine alla guerra, sarebbe ben più ostico dello stesso Zelensky. Ma, come si diceva, malgrado che Putin possa rallegrarsi in merito alla futura smobilitazione dell’Ucraina, dovrebbe temere invece la “sua”, con il rientro in patria di milioni di reduci, certamente assai critici con i loro vertici politico-militari per la condotta della “operazione speciale” e la corruzione dilagante in seno alle forze armate russe, come si è visto nel caso della Wagner e del suo leader Evgenij Prigožin, scomparso in circostanze mai del tutto chiarite. E, forse questo timore del rientro dei veterani, in presenza di scarsi risultati sul campo di battaglia e di notevoli perdite in vite umane, sta consigliando a Putin di rinviare il più possibile i colloqui di pace, nella speranza di un crollo improvviso della resistenza ucraina. Ma se lui è il Diavolo, allora a nulla gli varranno i maldestri coperchi delle truppe mercenarie, infilate nei ranghi regolari per tentare di minimizzare le perdite di soldati russi. Perché, in definitiva, “anche le volpi (siberiane), prima o poi, finiscono in pellicceria” (cit.).

Aggiornato il 05 giugno 2025 alle ore 09:41