Il sangue (anti woke) di Trump: attentato alla democrazia

Fallendo, il tentato assassinio di un candidato molto divisivo alla Presidenza americana può rafforzare la democrazia? E sarà davvero questo l’esito a breve/medio termine dell’attentato di Butler a Donald Trump, prima vittima illustre di una campagna elettorale impostata da entrambe le parti sulla mostrificazione dell’avversario politico, anziché sui programmi? Dipende da che cosa si intenda per unità nazionale, invocata sia dall’offeso che dal suo rivale per costruire un argine alla violenza fisica e verbale. Per esempio, a uno sguardo distaccato dall’esterno, non sembra che le proteste pro-Hamas delle università americane rappresentino, come invece si vorrebbe far credere, una bandiera del progressismo pacifista, visto che i suoi burattinai e finanziatori provengono da quella parte del mondo in cui proprio il wokism (che predica sempre più diritti per le minoranze e gli Lgbt, con particolare riferimento alla parità dei sessi) è il nemico giurato. Come dire: una democrazia inetta, quella dei democratici americani, che accetta l’auto castrazione come contropartita politica. Ora, come si è accennato, la necessaria “pacificazione” della guerra civile valoriale, che attraversa da tempo il continente nordamericano, passa per le forche caudine dell’interpretazione da dare alla (giustamente) auspicata unità nazionale, che però non può essere correttamente formulata senza un’adeguata identificazione del Nemico comune. E quest’ultimo non coincide né con la violenza verbale, né con quella fisica, da sempre costituenti ineliminabili nella terra della “Frontiera”.

Il wokism, che ha in massimo odio The Donald e i suoi seguaci del Maga, infatti, malgrado gli imponenti finanziamenti di cui gode per rendere totalizzanti le sue campagne demagogiche e intellettuali, è di fatto un’ideologia fallita, che ha reso l’Occidente inviso al resto del mondo e, soprattutto, a chi si riconosce nel Global South, guidato dalla terna Cina, India e Russia. Oggi, infatti, il totalitarismo buonista del wokismo sarebbe da liquidare con una semplice battuta, visto che due terzi del mondo preferisce l’uso plurimillenario della forza al dirittismo e al dogma del diritto internazionale, quest’ultimo privo di strumenti coercitivi per la sua implementazione, oltre alla astratta buona volontà degli uomini. E, oggi, al contrario dell’illusionismo woke, la forza si presenta con i suoi due volti marziali: quello militare e l’altro relativo al dominio economico del mondo, che vanno di pari passo per le due rivali planetarie sistemiche, Usa e Cina. Per cui tutto è lecito nella corsa ad accaparrarsi le materie prime, ovunque esse siano, al fine di assicurarsi la supremazia produttiva e tecnologica. Ora, il vero suprematismo non ha nulla a che vedere con il colore della pelle e la razza, essendo la vera, autentica prerogativa di chi non si fa scrupolo nel ricorrere all’uso della forza nel regolare i rapporti tra Stati, e nel prevaricare regole da lui non condivise di diritto internazionale. Così, ormai è chiaro che anche il vuoto pacifismo di un’Europa ancorata ai suoi privilegi, riferibili all’obsolescente Pax americana, deve scegliere di avere una sua forza autonoma, sia nella difesa che nell’economia.

Il suo vero avversario globale, infatti, è da un lato l’ex impero sovietico che ritorna in armi a rivendicare i suoi spazi storici e, dall’altro, il Regno di mezzo (Chung-kuo) di una Cina straripante, che distorce ogni regola di mercato sussidiando in modo massivo la sua economia. Creando per di più un vero e proprio monopolio cinese delle materie prime, per quanto riguarda le tecnologie avanzate e la rivoluzione green che, da sola, movimenterà da qui ai prossimi due decenni centinaia di trilioni di dollari. Ora, è chiaro che se, come tutto fa pensare, ci dovesse essere un secondo e ultimo mandato per Trump, allora la pacificazione avverrebbe di certo nei toni (dato che proprio The Donald con le sue campagne infuocate ne è stato la vittima più illustre), ma muterebbe completamente natura rispetto agli obiettivi. L’America post-2024 di Trump, infatti, sarebbe obbligata in modo bipartisan a mettere l’accento su di un programma nettamente sciovinista e nazionalista, per la ricostruzione della Rust Belt (come sta accadendo in Russia!) ai fini della conseguente rinascita industriale del Paese. La concorrenza spietata alla Cina avrebbe così i suoi punti di forza nelle barriere doganali, nel ricorso ai sussidi di stato per l’industria e per la tutela dei campioni nazionali dell’Intelligenza artificiale e della Silicon Valley. In vista delle elezioni presidenziali di novembre, dipenderà da come The Donald, a partire dall’investitura alla convention repubblicana, adatterà il suo grido di guerra, indirizzato agli sconfitti della globalizzazione: “Io sono il vostro guerriero. Io sono la vostra giustizia. E, per tutti coloro che sono stati ingannati e traditi, io sono il vostro riscatto”. Ora questi toni dovranno essere ampliati molto oltre l’orizzonte dei Maga e dei fedelissimi che lo voterebbero anche qualora decidesse di “uccidere qualcuno a caso in mezzo alla Quinta Strada”. Solo una sana politica lungimirante dell’antivittimismo potrà, infatti, portare in voto a Trump milioni di voti di indecisi. Per i suoi consiglieri sarà da oggi in poi della massima importanza demolire il pilastro ideologico della campagna di Joe Biden, che vede in Trump un potenziale dittatore e una minaccia costante per la democrazia americana, per cui ben venga un attentato alla Butler. A partire da quell’immagine storica del volto ferito e del pugno alzato sullo sfondo della bandiera americana, dipenderà da quanta forza la sua propaganda saprà dare a quel “fight!”, edificandolo come monumento ideologico della difesa strenua per il mantenimento delle libertà democratiche in America e nel mondo.

Aggiornato il 18 luglio 2024 alle ore 15:55