Ad alcuni giorni dalle inutili elezioni politiche in Iran, ci si potrebbe chiedere se esprimere una preferenza, in taluni contesti sociali, possa avere ancora un senso. Parlare di inutilità delle votazioni potrebbe sembrare democraticamente blasfemo. Non poche occasioni, anche in caso di referendum, hanno dimostrato quanto valga poco la volontà del popolo. Con un approccio a-dogmatico, possiamo notare che pure in Italia molti referendum, plebiscitariamente chiari, non sono stati poi applicati, mandando gradualmente nel dimenticatoio l’espressione di volontà popolare oppure operando trasformazioni normative che hanno lasciato la “questione” nello status quo ante referendum. Molto spesso – soprattutto in contesti scarsamente o per nulla liberali – la “chiamata” al voto funge da doping sociale, dando l’illusione alla massa di avere un peso decisionale nella società. Però, in realtà, il ruolo che riveste non è altro che la subordinazione ai marionettisti del sistema. Di ciò sono cinicamente coscienti i politici che fanno dello sbandieramento della “libertà di scelta” il loro business.
In Iran gli Ayatollah si sono giocati nuovamente la credibilità, tentando di illudere gli iraniani che le votazioni politiche, celebrate il primo marzo, potessero consentire una scelta al popolo. Così, i conservatori/islamisti/estremisti al potere – senza la minima sorpresa – hanno vinto le elezioni legislative. Le votazioni sono state caratterizzate da una astensione che, dall’inizio della Repubblica Islamica, nel 1979, non si era mai verificata. Subito dopo il Ministero degli Interni, con ipocrita esaltazione, ha dichiarato che venticinque milioni di iraniani, quasi il quarantuno per cento dei sessantuno milioni di aventi diritto al voto, si erano recati alle urne. Ricordo che le precedenti elezioni legislative del 2020, appena ostacolate dalle blande restrizioni della psico-info-business-pandemia – che in Iran hanno avuto una “applicazione” più illuminata rispetto all’Italia – avevano visto votare poco oltre il quarantadue percento dei “sudditi” della teocrazia.
Per contro, la principale coalizione dei partiti “progressisti” del Paese, il Fronte riformista, aveva già dichiarato il suo rifiuto di partecipare a queste “elezioni senza senso” a causa dell’esclusione, prima del voto, di molti dei suoi candidati. Subito Ahmad Vahidi, ministro degli Interni, ha esaltato il successo delle elezioni accusando, come è da prassi, la “potente propaganda dei nemici” che avrebbe tentato di scoraggiare gli iraniani a recarsi alle urne. Sono accusati di tale operazione “le forze nefaste”, rappresentate dai servizi segreti di Stati nemici e da gruppi terroristici, che avrebbero tentato di minacciare la sicurezza dei cittadini che aspettavano di recarsi ai seggi elettorali. Inoltre, la guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha incolpato Israele, Stati Uniti e alcuni Paesi europei di fomentare la destabilizzazione sociale.
Detto ciò, quale sarà la nuova composizione del Parlamento di Teheran? Intanto, l’assetto si potrà conoscere con esattezza solo dopo il secondo turno, che si svolgerà ad aprile o a maggio, in quanto si dovranno assegnare i quarantacinque seggi rimasti vacanti dei candidati che non hanno ottenuto un numero di voti sufficienti per l’elezione diretta. E comunque i duecento deputati già eletti, appartenenti a varie liste, possono essere collocati nel “gruppo dei “principalisti”, che raccoglie le correnti dei conservatori e degli ultraconservatori. Mentre, secondo la stampa iraniana, la corrente riformista non dovrebbe avere più di quaranta deputati. Le deputate donne elette sono, a oggi, undici su 245, contro le sedici della passata legislatura.
Quindi, il boicottaggio al voto produrrà un Parlamento ancora più contratto nell’ultraconservatorismo, che sosterrà ancora con maggiore radicalismo Ebrahim Raisi, che è alla presidenza dal 2021. I parametri di questo nuovo Parlamento tracceranno una estremizzazione della visione della società e della geopolitica. Infatti, sarà seguita la linea più rigorosa circa i principi della Repubblica islamica: la già oppressiva osservazione dell’uso obbligatorio dell’hijab; le geostrategie in atto sul fronte degli hezbollah libanesi, come gli Houthi in Yemen, sul versante Hamas-Israele; la chiusura nei confronti dei Paesi occidentali.
Molti deputati hanno trovato difficoltà a essere rieletti, come il presidente uscente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf; in più, gli iraniani hanno votato anche per il rinnovo degli 88 membri dell’Assemblea degli esperti, incaricata di nominare la guida suprema, che allo stato dei dati rimarrà dominata dai conservatori, essendo stati esclusi i candidati moderati, come l’ex presidente Hassan Rouhani. Questa Assemblea degli esperti svolgerà un ruolo di primo piano nel processo di nomina di una nuova guida suprema, in caso di decesso dell’ottantaquattrenne Ayatollah Ali Khamenei.
Ciononostante, nel quadro delle elezioni in Iran, che hanno appena sfiorato le attenzioni internazionali vista la reale inutilità dell’evento, l’auspicio della maggior parte degli iraniani che non si è recata a votare, quasi il sessanta percento, è che “scompaia” non solo Khamenei ma il regime degli Ayatollah.
Aggiornato il 11 marzo 2024 alle ore 09:53