Le ambizioni cinesi verso Taiwan si potrebbero semplicisticamente classificare come una catena di obiettivi con scadenza dichiarata. Perché la Cina – o meglio, Xi Jinping – dovrebbe sconvolgere l’area asiatica e non solo, facendo intendere che attaccherà l’isola intorno al 2027? Un’aggressione cronicamente minacciata, ma da un po’ di tempo sembra più un preavviso, un’allerta, un’ambizione di “fanta-geostragia planetaria”. In realtà, la Cina punta a subentrare agli Stati Uniti come primo attore militare nell’Oceano Pacifico. Gli Stati Uniti hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Taipei nel 1979, per riconoscere Pechino come unico rappresentante ufficiale della Cina. Tuttavia Washington, percorrendo una strada diplomatica delicata, ha continuato a mantenere un ruolo decisivo nel sostenere Taiwan. Si fa riferimento a una legge del Congresso Usa che approva la vendita a Taiwan di armi, al fine di garantire un’autonomia difensiva in caso di aggressione cinese. Inoltre, gli Usa hanno previsto, con chiari patti, quella che viene definita “ambiguità strategica”. Tale modalità di mascherata cobelligeranza, perché di questo si tratta, prevede la possibilità di intervenire militarmente. Oltre che “ambigua” è anche una doppia strategia. Infatti, è ideata sia per dissuadere Pechino da agire come un compressore verso Taipei, sia per scoraggiare Taiwan dal provocare Pechino con dichiarazioni ufficiali di indipendenza.
Le minacce cinesi si articolano sul “concetto” che la Cina consideri Taiwan una provincia cinese e paventi l’intenzione di “riprendersela” con le armi, se proclamasse formalmente l’indipendenza. Abbiamo già assistito a ciò che è accaduto a Hong Kong quando, nel 1997, terminò il governatorato britannico. Una prova di forza con gli abitanti dell’ex protettorato, che ancora oggi non hanno digerito il “ritorno” alla “casa madre”. Ora Pechino ha moltiplicato gli allarmi a Taiwan con dimostrazioni di forza e tentando di ostacolare la navigazione attraverso lo Stretto di Taiwan, che separa l’isola dalla Cina. Ma questa genetica idea di “imperialismo cinese”, applicato da una Repubblica popolare, punta anche alle Filippine e al Vietnam, nel Mar Cinese Meridionale, come alle isole Senkaku, nel Mar Cinese Orientale, controllate dal Giappone. Per non dimenticare, poi, l’Himalaya di fronte all’India e persino l’isola statunitense di Guam, nel Pacifico. Quindi, un bel quadro strategico da giocare a tappe, ma probabilmente una posta troppo alta, perciò una “chimera”. In questo puzzle geostrategico, l’americana Guam ha un ruolo: secondo pessimisti analisti statunitensi può essere un obiettivo. Sottolineo che un paio di anni fa l’esercito cinese pubblicò un video di propaganda, ovviamente cinematografico, dove i piloti aeronautici bombardavano una base militare sull’isola di Guam, ubicata a duemilacinquecento chilometri a est delle Filippine. Così gli Usa, a seguito di tale video, istallarono nell’isola una sofisticata batteria antimissilistica Nato, la Aegis Ashore Missile Defence, in grado di intercettare in volo i missili cinesi più sofisticati.
Comunque, oltre alle catastrofiche promesse cinesi di prendere Taiwan nel 2027, la realtà è che a fine febbraio i rappresentanti taiwanesi hanno accolto nell’Isola gli omologhi cinesi, discutendo di tematiche locali e non “guerresche”, come turismo, sport e cultura; contestualmente il capo dello Stato taiwanese, Tsai Ing-wen, ha affermato che rafforzerà i suoi legami militari con gli Stati Uniti, tanto per essere chiari. Questo vertice è stato il primo dopo l’imbarazzante parentesi pseudo-pandemica. I sei delegati cinesi sono stati accolti calorosamente, così ha dichiarato il sindaco di Taipei, Chiang Wan-an, appartenete al partito Kmt, Kuomintang, tendenzialmente più predisposto del Partito Progressista cinese di Tsai Ing-wen a un riavvicinamento con la Cina. Ricordo che la visita è inserita in un programma di scambi tra Pechino e l’isola di Taiwan, in previsione delle attese (anche dalla Cina) elezioni presidenziali del 2024.
Ho sempre considerato le minacce del presidente cinese Xi Jinping pura propaganda geopolitica: è troppo complessa l’area del semi-anello di isole dirimpettaie alle coste cinesi. Inoltre, un’azione militare verso Taiwan preavvisata da Xi è tutt’altro di quanto accaduto con Vladimir Putin. È vero che fare previsioni sulla strategia cinese è materia intricata: non si hanno informazioni sufficienti e chiare sulle intenzioni di Xi Jinping. Nell’invasione russa, gli Stati Uniti e le frange della Nato avevano predetto, in chiari termini, i tempi e i modi dell’aggressione: i dialoghi con Vladimir Putin, l’osservazione dello spiegamento e delle dinamiche delle truppe russe e, soprattutto, le intercettazioni delle comunicazioni e il ruolo delle spie. Oggi non ci sono paragoni che tengano su quello che potrà riservare lo scacchiere asiatico. Di conseguenza, nulla che potrebbe allertare su un’eventuale pianificazione per l’unificazione forzata di Taiwan tra il 2024-2027.
In breve, la strategia della Cina comunista è una reazione al gioco democratico taiwanese, amalgamato con il piano di un comprensibilmente egocentrico Xi Jinping, che recentemente ha fatto dichiarare al portavoce della sua diplomazia, Hua Chunying, che la Russia è una “forza progressista” che si oppone alla politica di potere e alla pratica dell’intimidazione. La Cina è ricca ma una guerra nel Pacifico, forse, è troppo onerosa sia per le ambizioni di Xi come per l’Occidente.
Aggiornato il 06 marzo 2023 alle ore 09:33