Giorgia in Albione: noi e gli anglo-americani

Da un’attenta analisi, i commenti della stampa internazionale anglo-americana, immediatamente successivi ai risultati ufficiali del voto elettorale, con particolare riferimento alle edizioni del 27 settembre (e seguenti) di quotidiani internazionali del livello, in particolare, di Financial Times (Ft), Times, Independent, Guardian, New York Times (Nyt), Washington Post (Wp), Wall Street Journal (Wsj), presentano costanti interpretative e standard comuni di analisi delle future condotte politiche del prossimo Governo a guida della leader di Fratelli d’Italia (FdI), Giorgia Meloni, vincitrice indiscussa del confronto elettorale del 25 settembre 2022. Gli atteggiamenti assunti dai grandi media della stampa mondiale ricordano da vicino le vicende lontane della campagna sfrenata, da parte dei progressisti e della sinistra mondiale, che vide la luce a seguito dell’elezione alla presidenza degli Stati Uniti del repubblicano di destra, Ronald Reagan (riconosciuto vincitore storico della Guerra fredda) e che si ripeterono, per molti aspetti, con l’elezione alla Casa Bianca dei Bush, padre e figlio. Tutto il contrario, quindi, di quel detto “wait and see” (“attendi e osserva”) che costituisce il comportamento del saggio. Tra le pregiudiziali più “gettonate” si registra il riferimento critico e spesso allarmato alle radici fasciste di Meloni e del suo partito, aspetto quest’ultimo che ispira in modo omogeneo i giudizi negativi o dubbiosi degli editoriali di punta dei più noti colleghi esteri. A questi ultimi, per la verità, si affiancano e giustappongono (pur senza grandi novità per chi conosce dall’interno gli affari politici italiani) giornalisti di complemento italiani, come il caporedattore del quotidiano nazionale “Domani”, Mattia Ferraresi, che firma il suo intervento sul Nyt del 27 settembre, dal titolo: “Despite vote, Italy’s Democracy is not in peril”. Bontà sua, verrebbe da dire.

In secondo luogo, correlate alla natura di FdI, connotata regolarmente con scarsa fantasia come “far-right”, o estrema destra, di un “right-wing government” (Governo di centro-destra), emergono le questioni relative alle scelte di Meloni e del suo Esecutivo su quelle che saranno le politiche in merito all’immigrazione, al rispetto della fedeltà atlantica e, quindi, all’atteggiamento da tenere verso la Russia e il conseguente appoggio (Nato e occidentale) all’Ucraina. Per poi rimarcare, sempre e ovunque, in ogni circostanza, il rischio più che probabile della limitazione dei diritti della comunità Lgbtq, come quello del matrimonio, delle adozioni e della maternità surrogata per coppie dello stesso sesso. Per inciso, se tutte le immense risorse mediatiche e finanziarie per sostenere quella che a oggi appare come una vera e propria lobby mondiale di potere gay, e non più come una minoranza da proteggere, fossero state dedicate a liberare dalla presa oscurantista, illiberale e totalitaria le popolazioni falcidiate e violentate dal radicalismo islamico al potere, forse oggi le donne, gli uomini e i giovani che vengono uccisi sulle piazze iraniane – forse occorre ripetere – sarebbero stati finalmente liberi di vivere a loro piacere la vita che vorrebbero. Invece, il Washington Post la vede del tutto diversamente, nel suo editoriale del 27 settembre, dal titolo “Italy takes a hard right turn” (“L’Italia vira radicalmente a destra”), secondo cui, malgrado l’Italia abbia avuto 69 Esecutivi in 77 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, nondimeno questa è la prima volta in assoluto che a governare sia la destra populista, sovranista e anti-élite, con un primo ministro donna che denuncia in materia di immigrazione illegale un complotto mondiale per la “sostituzione etnica” della popolazione autoctona italiana, da contrastare a suo giudizio ricorrendo a un blocco navale per impedire gli sbarchi clandestini sulla Penisola.  Il suo atteggiamento, commenta il Nyt, renderà la vita dura alle rivendicazioni del movimento Lgbtq, dato che l’Italia è il solo grande Paese europeo a non aver legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che continueranno a non avere diritto alle adozioni e alla maternità surrogata.

Sul mantenimento delle sanzioni alla Russia e degli aiuti all’Ucraina le posizioni, tuttavia, subiscono vari effetti di diffrazione, orientati da un lato al più bieco pessimismo o, al contrario, a rimarcare dall’altro in positivo il mutato atteggiamento della Meloni e di FdI sulla questione più spinosa della solidarietà atlantica. Nel primo caso, si insiste sul parallelismo Viktor Orbán-Giorgia Meloni per certificare presuntivamente un cambio di strategie in seno all’Unione europea, con la creazione di un inedito asse tra i sovrano-nazionalismi di Ungheria, Italia e Polonia. Alternativamente ottimista e pessimista, sposando quindi entrambe le versioni, è proprio il grande quotidiano progressista Nyt che, citando la posizione di Washington in merito alla futura premiership di Giorgia Meloni, sostiene nell’editoriale del 27 settembre, dal titolo “White House stays calm” (“L’atteggiamento della Casa Bianca è improntato alla calma”) come, in caso di un riavvicinamento tra Roma e Mosca, occorra valutare (sposando quindi il motto di “wait and see”) i suoi possibili riflessi sugli equilibri di forza e sugli schieramenti attuali, in cui si confrontano a livello planetario democrazie e autocrazie. Per Nyt e Ft, malgrado le tendenze filo-Vladimir Putin degli altri due partiti che fanno parte della coalizione vincente di centrodestra, è molto probabile che il futuro Governo Meloni resti saldamente allineato alla Nato e agli altri Paesi europei, per quanto riguarda il sostegno all’Ucraina contro l’invasore russo. Il timore dei democratici americani (che il quotidiano statunitense ritiene fondato) è una più che probabile saldatura nell’immediato futuro tra la destra italiana e l’ala repubblicana oltranzista di Donald Trump, che si ritroveranno alleati nella battaglia contro la “Woke Left” (del politicamente corretto, del gender fluido e della cancel culture), senza per questo alterare tuttavia i rapporti inter-atlantici esistenti tra i due Paesi. Anche in considerazione del fatto, si aggiunge ai commenti espressi dai colleghi, che alle Presidenziali del 2024 potrebbe tornare a vincere un candidato repubblicano! Matteo Ferraresi, nel suo citato contributo al Nyt, osserva più obiettivamente come Giorgia Meloni, prendendo nettamente le distanze dal suo passato filo-Putin, sia oggi la più strenua sostenitrice del price cap per il gas naturale, che rappresenta l’arma più micidiale nei confronti del ricatto energetico che ci viene imposto dalla Russia.

Un ulteriore aspetto che preoccupa i giornalisti d’Oltre Atlantico e la City è rappresentato dalla questione del presidenzialismo e dalle riforme istituzionali sostenute in campagna elettorale dal centrodestra e da Meloni, in particolare. Nyt tranquillizza in merito i suoi lettori, dato che alla luce dei risultati elettorali il centrodestra ha solo sfiorato ma non raggiunto la maggioranza dei due terzi (sufficiente a cambiare unilateralmente la Costituzione, senza passare per il referendum approvativo), cosa che non consentirà alla nuova maggioranza l’introduzione in tempi brevi del presidenzialismo, per il rafforzamento dell’Esecutivo. Il nuovo Governo Meloni, il primo in assoluto dal 1861 guidato da una donna (vedi tra gli altri il Financial Times, con l’articolo “Italian right’s victory does not have to mean a lurch into extremism”, “Non è detto che la vittoria della destra in Italia rappresenti una deriva verso l’estremismo”), per cui parlare nel suo caso di un ritorno al fascismo è una cosa del tutto priva di senso. Meloni, tra l’altro, dovrà tener conto dell’insoddisfazione dei suoi due alleati usciti sconfitti dalle elezioni del 25 settembre, con un Matteo Salvini in cerca di rivincita per un posto di rilievo nel Governo con la sua Lega decisamente pro-Putin e, per altri versi, con un Silvio Berlusconi deciso a impedire qualsiasi deriva antieuropeista. Verrebbe di aggiungere a giusto titolo, avendo nelle sue fila una figura di peso come l’ex presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, in grado di svolgere un prezioso ruolo di mediazione con Bruxelles. Semmai, osservano in molti, il vero gap di FdI è di non avere una classe dirigente sufficientemente “rodata” per fronteggiare nell’immediato futuro le difficili sfide che attendono l’Italia.

Un quadro simile, che si prevede decisamente litigioso, non consentirà a Meloni di adottare politiche radicali tali da modificare gli attuali equilibri nella Ue avendo, in aggiunta ai commenti citati, per di più all’opposizione, partiti favorevoli a un “ribaltone” (che avverrebbe per un famigerato “cambio di casacca” di un sufficiente numero di parlamentari forzisti e leghisti all’attuale maggioranza) per il ritorno di Mario Draghi al Governo. Un ulteriore ostacolo a una forte ri-centralizzazione del potere è dato dalle 20 Regioni autonome e dalle 8mila municipalità: in questo contesto istituzionale, va osservato per inciso, e oltre i commenti espressi dalla stampa internazionale, che i responsabili locali e regionali sono scelti sulla base di leggi elettorali tese a rafforzare il legame diretto tra eletti e cittadini elettori che, con il presidenzialismo proposto da Meloni, si vorrebbe estendere anche a livello nazionale. A completare il contro bilanciamento dei poteri costituzionali, si aggiunge la forte autonomia della magistratura, il cui ordinamento è stato di recente riformato, e la sostanziale indipendenza dalla politica della Corte costituzionale italiana.

Altra costante nei commenti della stampa estera, dal punto di vista delle scelte di politica economica del prossimo Governo Meloni, è rappresentata dall’incertezza sullo stato dei futuri rapporti tra Italia e Unione europea, pur convenendo all’unanimità che anche un partito anti-establishment e anti-élite come FdI non possa fare a meno del sostegno finanziario dell’Europa per la sopravvivenza del proprio Governo. Anche se sarà certamente sollevata da Meloni la questione della messa in discussione in merito alla prevalenza della legislazione comunitaria su quella nazionale, come già avvenuto nel caso della Polonia. Il riferimento costante, in tal senso, è ai fondi ottenuti dall’Italia con il Recovery Fund e agli impegni connessi all’attuazione del Pnrr, che sarà molto difficile per Giorgia Meloni ricontrattare e ridiscutere a Bruxelles, in termini di dilazione delle scadenze e dell’erogazione a debito di nuovi contributi comunitari. È certo, tuttavia, e non solo per il Nyt, che il prossimo Esecutivo a guida Meloni, a seguito dei costi intollerabili dell’energia (dovuti alla guerra in Ucraina) e del peso rilevante che l’attuale livello elevato dell’inflazione esercita sui bilanci di famiglie e imprese, dovrà provare a resistere alle forti pressioni interne da parte della propria opinione pubblica, che spingerà, soprattutto in caso di recessione, per un rallentamento dell’invio di armi europee a Kiev e per la ripresa anche parziale delle forniture di gas dalla Russia.

In alternativa, mantenendo le attuali sanzioni, il futuro Governo Meloni potrebbe decidere, per compensare il notevole aggravio degli ultra-costi energetici per i cittadini italiani, di adottare una mossa molto simile a quella tedesca a favore di consistenti scostamenti di bilancio, che andranno tuttavia a pesare drammaticamente sul già elevatissimo indebitamento pubblico italiano. In tal senso, però, come nota l’editoriale sopra citato del Ft, sarà impossibile per Meloni mantenere le sue promesse elettorali per l’introduzione di una flat tax e per un alleggerimento fiscale a beneficio di famiglie e imprese, aumentando per di più le pensioni minime. Tali misure, sottolinea il quotidiano della City, avrebbero riflessi fortemente negativi sull’atteggiamento dei mercati e degli investitori internazionali, visto l’indebitamento dell’Italia che viaggia ben oltre il 150 per cento. Pertanto, la Meloni dovrà riconsiderare il suo profilo statalista, protezionista e interventista in materia di economia, per non alienarsi il favore dei mercati.

Ulteriore costante nei commenti della stampa anglo-americana è il ritorno in grande stile del populismo e del sovranismo di destra. In termini più generali, il successo di Fratelli d’Italia è l’ultimo in ordine di tempo che vede premiate in Europa le formazioni politiche più a destra, com’è già accaduto nel caso dei nazionalisti francesi, ungheresi e svedesi, a seguito della sovrapposizione di tre gravissime crisi che stanno sconvolgendo il Vecchio Continente, quali l’immigrazione, l’alta inflazione e una guerra devastante alle porte dell’Europa, inimmaginabile dopo settant’anni di pace e di benessere. Insomma, molte luci e ombre, come si vede, per il prossimo Governo Meloni.

Aggiornato il 12 ottobre 2022 alle ore 10:28