Ma la Polonia non era fuori dall’Ue?

Se la crisi ucraina mostra chi è coerente con l’Europa

Il paradosso di una Nazione accusata – anche dai media cattolici italiani – di violare lo Stato di diritto, al punto che le è stata sospesa l’erogazione iniziale dei contributi del Next Generation Eu, e che mostra nei fatti una solidarietà nell’accoglienza dei profughi ucraini esemplare per l’intera Europa. Il paradosso del “gruppo di Visegrád”, additato come somma di nazionalismi, i cui componenti vanno a trovare Volodymyr Zelensky, a differenza degli altri leader Ue, specializzati negli incontri on-line.

U’krajina: ai confini. È questa la traduzione dell’etimo slavo che indica i territori che sono stati, invero, il cuore della prima Rus’, la Russia di Kiev, che si costituì come nazione cristiana nel 987 all’esito della conversione del principe Vladimir (nomen non omen, in questo caso!), indotto alla conversione dalla moglie bizantina, e con lui – come usava ai tempi – di tutto il popolo discendente dalla migrazione, lungo il corso del Volga, dei Varaghi dalla antica Scandinavia, il cui colore biondo dei capelli diede il nome di “russo” alla nazione.

Fu solo dopo lo scisma della Chiesa d’Oriente, avvenuto sul filioque del credo latino nel 1054, per questo autoproclamatasi “ortodossa” e soprattutto dopo l’invasione mongola da oriente delle terre russe nel tredicesimo secolo e la decadenza di Kiev, costretta a offrire il tributo ai tartari invasori (nihil sub sole novi?), con la conseguente successiva rimonta del principato ortodosso che spostò la propria capitale, prima a Novgorod, poi a Mosca, quindi molto più ad est, che l’Ucraina diventa appunto terra di confine fra Occidente e Oriente, tra l’Europa cattolica (poi anche protestante) e quella ortodossa, contesa fra quello che sarà l’impero zarista e quello asburgico, ma sempre nel cuore dell’Europa.

Come ha insegnato San Giovanni Paolo II, l’Europa cristiana è tale grazie ai due polmoni rappresentati dall’Occidente, il cui santo patrono è Benedetto, come dall’Oriente, i cui santi patroni sono gli evangelizzatori Cirillo e Metodio, ma l’Europa è una e l’Ucraina ne rappresenta il centro, per tali evidenti ragioni storiche e geografiche. Se si tiene conto di tale indispensabile premessa, sarà più agevole comprendere la tragedia, oltre che umana e sociale della guerra, anche culturale e istituzionale dell’attuale conflitto, il cui portato geopolitico tanto risente dei contrasti di cui nei secoli questa terra è stata, spesso involontaria, protagonista. Sarà, altresì, più facile capire anche perché l’Europa, intesa come Ue-Unione europea, abbia reagito con invero inusuale compattezza a fronte delle emergenze imposte dall’‘operazione speciale’ di Vladimir Putin in Ucraina, al punto da spingere lo stesso Consiglio, in occasione del recente incontro dei 27 a Versailles, a ipotizzare, ancorché non ancora a decidere, misure di difesa comune, eventualmente finanziabili con obbligazioni comuni, analogamente a quanto già fatto dalla Bce–Banca centrale europea, con il Next Generation Eu, il piano di finanziamento straordinario per combattere le conseguenze economiche negative della pandemia da Covid-19, a mezzo appunto di obbligazioni comuni garantite direttamente dai fondi europei.

L’apparente paradosso risiede nella circostanza che, ancora una volta, il sussulto di unità europea derivi da una crisi, rappresentata in questo caso da una guerra ai suoi confini, che non solo la lambisce ma rischia di degenerare in un conflitto ben più ampio che la coinvolga direttamente. Sarebbe auspicabile che tale rinnovata unione di intenti a livello di istituzioni europee si accompagni al superamento della avversione ideologica, invece niente affatto tramontata, nei confronti di quegli Stati membri, accusati di violare le regole del cosiddetto Stato di diritto e che, per questo, si sono visti sospendere l’erogazione iniziale dei contributi del Next Generation Eu, in realtà colpevoli di declinare gli ordinamenti giuridici domestici con il richiamo ai valori tradizionali della propria identità nazionale, tra cui la stessa Polonia, che al contrario sta dando uno straordinario esempio di solidarietà nell’accoglienza offerta ai profughi ucraini: costoro, come tutti vediamo, letteralmente a milioni, stanno fuggendo dal proprio Paese attraverso la frontiera polacca.

I riflessi condizionati sono duri a morire anche su quel versante mediatico che dovrebbe mostrare vicinanza e comunione di intenti: fino a qualche giorno fa il quotidiano Avvenire ha continuato ad accusare la Polonia, in linea con la vulgata europeista, di essere discriminatoria (!), a tal punto e con toni così forti da provocare la formale protesta dell’Ambasciatore polacco alla Santa Sede. È in effetti chiaro, tranne a chi voglia continuare a leggere la storia con le lenti deformanti dell’ideologia, che la disponibilità, concreta e straordinaria, di Varsavia in tale opera non nasce soltanto dalla preoccupazione di avere il tradizionale invasore russo alle porte: la Polonia è una antica nazione rimasta senza Stato dalla fine del diciottesimo secolo fino al termine della Prima guerra mondiale, e poi di fatto soggiogata all’Unione Sovietica comunista per 45 anni, dalla conclusione della Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Nasce altresì dal riflesso – questa volta felicemente condizionato – di riconoscere negli ucraini che fuggono i fratelli europei cui era stata riservata la loro stessa sorte e che nuovamente si vuole privare, dopo l’indipendenza acquisita nel 1991, della libertà di aderire non già alla Nato, bensì a quella Europa di cui sono culturalmente e geneticamente sempre stati parte.

I mutamenti di prospettiva che la guerra contro l’Ucraina impone su più versanti, da quello propriamente militare a quello geopolitico, da quello economico a quello dell’approvvigionamento energetico, includono anche il profilo giuridico: l’accoglienza incondizionata e l’aiuto generoso, che non conosce pari in nessuna altra Nazione europea, che la Polonia sta offrendo agli ucraini è il riflesso di quegli stessi principi in nome dei quali Varsavia ha resistito qualche mese fa al tentativo di imposizione ideologica proveniente dal Parlamento e dalla Commissione Ue. Il gesto di materiale e simbolica solidarietà manifestato due giorni fa dalla presenza a Kiev, a fianco di Volodymyr Zelensky, dei leader di Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, tutti facenti capo al “gruppo di Visegrád”, tanto vituperato dal mainstream corrente a Bruxelles e a chi a esso si ispira, dovrebbe far riflettere sulle ragioni che hanno portato alla vicinanza fra quei Paesi, cui si aggiunge l’Ungheria.

Il dato che emerge è che passi concreti verso l’Ucraina, non mere declamazioni da home fighting, sono compiuti da quei componenti dell’Ue realmente coerenti con le radici autentiche del Continente europeo. Ignorarlo significa condannarsi alla non comprensione di quel che accade, e alla perdurante inazione di fronte alla tragedia in corso.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 17 marzo 2022 alle ore 11:05