L’Etiopia sta attraversando una grave crisi politica che la vede martoriata da una guerra civile devastante. La regione del Tigray è stata, dal 1991 al 2019, il fulcro del potere in Etiopia, così il Fronte popolare per la liberazione del Tigray (Tplf) è da oltre un anno in guerra contro l’attuale Governo guidato da Abiy Ahmed. Questo articolato conflitto attrae le attenzioni internazionali per la gravità della questione umanitaria che si sta creando nell’area della regione del Tigray, ma soprattutto per l’importanza strategico-diplomatica che l’Etiopia rappresenta.
Nel peculiare equilibrio del gioco delle alleanze un ruolo importante lo riveste l’Eritrea, che ha preso una posizione vicino al Governo di Addis Abeba, impiegando le sue truppe contro quelle del Tigray. Inizialmente le autorità eritree hanno negato la presenza dei loro soldati sul territorio etiope in generale e tigrino in particolare, ma già a metà 2021 il Governo eritreo ha ammesso, tramite una comunicazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu, la presenza delle sue milizie nella regione etiope del Tigray a sostegno dell’esercito federale etiope. Già a fine 2020 un rapporto di Amnesty International accusava l’esercito eritreo di aver massacrato centinaia di civili nella regione del Tigray, dove stava combattendo i ribelli tigrini. Dopo queste denunce l’esercito eritreo è stato accusato di avere compito crimini di guerra. Si sono susseguite ulteriori accuse testimoniate dai sopravvissuti che sono riusciti a rifugiarsi nel confinante Sudan e dalle immagini satellitari dell’antica città santa di Aksum, nel Tigray, dove sono state individuate fosse comuni vicino a due chiese.
Ma l’Eritrea non è sotto osservazione solo per le carneficine esercitate nel Tigray, ma anche perché è giudicata la “Corea del Nord dell’Africa”. A oggi è difficile sapere ciò che accade all’interno di questa nazione, le testimonianze che si hanno trapelano da coloro che riescono a fuggire da questo Stato dove la schiavitù ha espressioni estreme. Ma cosa sta realmente accadendo all’interno della “Corea del Nord africana”? Il contesto si rivela come la peggiore dittatura in Africa, e i paragoni eccellenti non mancano: una vera prigione a cielo aperto. L’Eritrea ha ottenuto l’indipendenza nel 1993, ed è stata governata con un forte dispotismo dal regime di Isaias Afewerki. Tuttavia, la realtà della situazione è ben nascosta da una “cappa di piombo” con esigue crepe, infatti le immagini che mostrano l’inferno che gli eritrei subiscono quotidianamente sono rare. La drammaticità della situazione è stata suggellata da alcuni filmati e da un recente documentario prodotto e diretto da Evan Williams, denominato “Eritrea, nazione schiava”. Quello che rivelano queste inchieste è una rassegnazione, uno stato di disperazione e di disagio assoluto; migliaia di eritrei vivono imprigionati in capannoni dove stanziano, alcuni da oltre dieci anni, in attesa di un processo che non si celebrerà mai. In questi luoghi di detenzione asfissianti e senza i minimi servizi igienici, c’è penuria di tutto fuorché di violenze. L’obbligo del servizio militare a tempo indeterminato e la fame hanno portato oltre 500mila eritrei, in un Paese di circa 6 milioni di persone, dati demografici incerti, a cercare la via della fuga, altri sono stati arrestati per insubordinazione, magari perché insofferenti a una vita di stenti; commettere reati veri è quasi impossibile. Quelli che sono riusciti a sopravvivere alla fuga, sono arrivati in contesti, come il Sudan, o l’Etiopia, dove la fatica per sopravvivere è simile.
I rari filmati raccontano che molte ragazze hanno tentato la fuga, alcune come una testimone del documentario, Hanna Petros Solomon, è stata arrestata nel 2009 mentre cercava di lasciare l’Eritrea, ora rifugiata negli Stati Uniti. Il Paese è un reticolo di campi militari: qui spesso incappano i fuggiaschi, che arrestati, subiscono violenze e torture, per poi essere rinchiusi in celle sotterranee chiamate “il forno”, che procurano devastanti shock psicologici. L’organizzazione dello Stato in Eritrea non prevede un Parlamento, un sistema giudiziario, i media, ovviamente, sono dipendenti dal potere. Molti video che sono usciti dall’inferno Eritrea sono filtrati con gravi rischi per gli autori, che risulta siano gli stessi carcerieri che sono legati a gruppi di dissidenti in esilio.
Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, già nel 2016, ha lavorato affinché i filmati fossero consegnati alla Corte penale internazionale, per valutare la diffusa e sistematica aggressione contro la popolazione esercitata dal regime. Il rapporto afferma che il regime di Afewerki ha commesso crimini contro l’umanità, dettagliati da sparizioni, reclusioni, schiavitù, stupri sistematici, che tutt’oggi continuano, tuttavia da allora la Comunità internazionale è rimasta in silenzio.
Nel luglio 2018 la pacificazione tra Isaias Afewerki e Abiy Ahmed, primo ministro d’Etiopia e ricordo Premio Nobel per la Pace contestato da Amnesty International, ha consentito la riapertura del confine tra i due Paesi. Ma ciò non ha corrisposto a una apertura della “cappa di piombo” che opprime l’Eritrea. Ricordo, sinteticamente, che il primo territorio dell’Africa orientale italiana, l’Eritrea, fu inglobato nel Regno d’Italia nel 1891 e la presenza italiana in Eritrea durò fino al 1941. Il rapporto tra italiani ed eritrei, generalmente e relativamente al periodo, non fu mai particolarmente negativo, tale considerazione è confermata anche da una intervista di qualche tempo fa rilasciata dal presidente autocrate Isaias Afewerki, dove si nota l’assenza di amarezza nei confronti dell’ex colonizzatore italiano e un notevole disprezzo nei confronti degli etiopi, successivi colonizzatori. Spiega Afewerki che gli eritrei mangiavano gli spaghetti e vivevano nelle ville, mentre gli etiopi mangiavano l’injera, un pane tradizionale, e vivevano nelle capanne. Continua Afewerki, osservando che il suo Paese è più moderno grazie a questo momento coloniale e alle norme e alle espressioni culturali assorbite dalle società eritree.
In effetti, la popolazione eritrea fu più durevolmente “italianizzata” e i numerosi incroci italo-eritrei fecero rivivere e perpetuare una memoria con identità eterogenea, considerando che già nel XIX secolo venivano consentiti i matrimoni italo-eritrei. Alla fase della colonizzazione italiana dell’Eritrea, dal 1891 al 1941, seguì “l’annessione/colonizzazione” etiope, dal 1960 al 1993, che fu peggiore della prima e provocò una guerra trentennale al termine della quale il Paese ottenne l’indipendenza. Oggi gli eritrei sono esausti. E Asmara piange o forse rimpiange?
Aggiornato il 31 gennaio 2022 alle ore 10:12