Dopo che l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha dato via libera alle tariffe su beni di importazione dell’Ue per 7,5 miliardi di dollari (6,8 miliardi di euro), come rappresaglia per il supporto illegale del blocco europeo ad Airbus, Donald Trump ha cantato vittoria, asserendo che si è trattato di un grande successo per gli Usa. In Italia, di rimando, in molti hanno colto l’occasione per ribadire che il sovranismo fomenta una visione sbagliata del futuro del Pianeta e del Paese.
Ma se la sentenza del Wto sembra aver posto fine alla battaglia tra Airbus e Boeing dando ragione a Boeing e a Trump, la decisione di quest’ultimo d’imporre nuovi dazi all’Europa rischia di rendere ancora più tese le relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e l’Unione europea.
Anche a prescindere dagli effetti della decisione del Wto, le perplessità sulla politica protezionista di Trump e dei partiti sovranisti sono comunque ampiamente condivisibili. In effetti, che senso potrebbe avere oggi, per un Paese europeo, una politica sovranista? L’impressione è che potrebbe avere solo un senso essenzialmente autodistruttivo, a meno che a meno che il sovranismo di cui si parla non sia una sorta di sovranismo europeo.
Questa è la conclusione cui si può giungere sulla base dell’esperienza di questo scorcio di nuovo millennio, durante il quale sia le politiche sovraniste sia quelle liberoscambiste e globaliste si sono rivelate, per diverse ragioni, inadeguate e inefficaci. In particolare, per molti Paesi che vivono di piccola e media impresa, il globalismo si è rivelato svantaggioso perché li ha esposti alla concorrenza sleale di paesi illiberali, mentre il sovranismo minaccia di trasformarli in stati dipendenti a tempo indeterminato dalle grandi potenze economiche e politiche del mondo.
Alla luce di queste sintetiche considerazioni, se l’Europa vorrà sopravvivere nei prossimi anni non potrà più stare ferma e limitarsi a cercare di sopravvivere, ma dovrà nascere politicamente, e per farlo dovrà procedere ad alcuni passi fondamentali, come la realizzazione di un’unione fiscale, di una comune difesa e una comune politica estera, che sia effettivamente in grado di gestire i flussi migratori con metodi civili ed efficaci: senza questi passi decisivi l’Ue è destinata a dissolversi e tutti i suoi componenti a diventare dei prestigiosi “protettorati” delle grandi potenze del pianeta, dato che nessun paese europeo potrà possedere, se preso isolatamente, un potere contrattuale idoneo a garantirne l’effettiva indipendenza né sotto il profilo economico né sotto quello politico.
Già nel settembre del 2017, dalle colonne di Repubblica, Eugenio Scalfari osservava che l’Europa doveva “essere decisamente rafforzata”. I capi di Stato e il governo dell’Ue ne erano già allora convinti: bisognava arrivare a una sorta di sovranismo dei 27 Paesi, e soprattutto di quello dei 19 che usavano la moneta comune: “l’Eurozona – precisava Scalfari – deve avere un ministro delle Finanze unico, responsabile della politica economica; un sistema bancario anch’esso unico; una sorta di Fbi unica nella lotta contro il terrorismo dell’Isis; un’unica politica estera e per quanto riguarda l’immigrazione; infine una struttura militare e naturalmente un’unica cittadinanza per quel popolo sovrano che eleggerà un proprio Parlamento e un presidente che abbia poteri di governo in tutto simili a quelli che ha il presidente degli Stati Uniti d’America”.
La situazione in cui oggi l’Europa viene a trovarsi conferma ampiamente sia i timori di Scalfari che la fondatezza dei suoi auspici: per evitare che l’Europa si disgreghi e si dissolva in tante piccole province di qualche impero illiberale, vi può essere un solo tipo di sovranismo realistico ed efficace, e cioè dotato di un senso politico che non sia essenzialmente auto-distruttivo: quello europeo.
Del resto, il dibattito in corso tra globalisti e sovranisti è spesso fondato su un equivoco pretestuoso e di natura ideologica, dato che le ragioni di ciascuna posizione, almeno in alcune circostanze, non sono intaccate da quelle dell’altra e le rispettive ragioni possono risultare ben equilibrate. Liberoscambismo e protezionismo hanno infatti costituito due opzioni alternative di politica economica in tutti i principali Stati del mondo almeno dal tempo di Colbert. Durante la Guerra di Secessione negli Stati Uniti e dopo l’unità d’Italia, la strategia protezionista fu adottata rispettivamente dai nordisti e dalla sinistra storica italiana, quella liberoscambista dai sudisti e dalla destra storica. Tuttavia, nonostante che questa competizione tra due visioni di politica economica si sia ben consolidata durante gli ultimi secoli, non si può non vedere che la posta oggi in ballo è molto più alta. Quello che oggi è messo seriamente in questione è infatti il rapporto stesso del liberismo con lo Stato liberale. V’è, in altri termini, la possibilità che un liberismo malinteso possa distruggere lo Stato liberale, rendendolo apparentemente obsoleto e superato agli occhi dei suoi stessi cittadini.
I paesi cui il liberoscambismo sta portando i maggiori benefici sono essenzialmente di due tipi: i paesi illiberali che, praticando una concorrenza sleale, come la Cina, hanno sottratto lavoro e investimenti a quella parte del mondo che è regolata da costituzioni liberaldemocratiche; e i paesi caratterizzati da una prevalenza di grandi aziende dotate di un elevato know how tecnologico, come ad esempio la Germania, e dunque anche capaci di esportare massicciamente in Cina e in altri paesi del primo tipo. Gli altri Paesi europei e occidentali che sono invece caratterizzati da una prevalenza di piccole o medie aziende, come l’Italia, non si sono rivelati in grado di organizzare e gestire le proprie esportazioni in quei mercati tanto vasti in maniera altrettanto efficace e competitiva: per questo, il nostro paese ha complessivamente ricavato dal globalismo più svantaggi che vantaggi, sebbene l’aver computato nel bilancio delle esportazioni anche quelle operate da aziende delocalizzate abbia prodotto un’illusione statistica opposta, che però, in quanto di natura illusoria, non si è trasformata in un corrispondente incremento della nostra domanda interna, come sarebbe accaduto se la produzione non fosse stata delocalizzata.
In realtà, su scala globale, il liberoscambismo risulta preferibile al protezionismo solo quando s’instaura tra paesi che condividono comuni regole del gioco. Sebbene anche in questo caso possa in un primo tempo avvantaggiare i “sistemi-paese” più avanzati rispetto a quelli che lo sono meno, stimolando questi ultimi a migliorare proprio la loro struttura di “Sistema-Paese” può, nel medio e lungo periodo, costituire motivo di rilevante crescita economica e politica anche per loro.
Ma quando invece alcuni dei partecipanti possono praticare una concorrenza sleale, questa circostanza non ha altra conseguenza che il danneggiare le economie dei paesi che offrono maggiori garanzie liberali e democratiche ai loro cittadini e lavoratori a vantaggio dei governi di quelli che ne offrono decisamente di meno o non ne offrono affatto. Da qui la necessità di porre barriere doganali verso tutti quegli stati che adottano regole diverse rispetto a quelle cui hanno scelto di attenersi i paesi europei ed altri paesi liberaldemocratici in occidente e in oriente.
Ora, sull’esigenza di porre nuove barriere doganali Trump ha di recente costruito il suo successo politico: ma il modo con cui sta procedendo verso nuove misure protezionistiche si sta rivelando tanto indiscriminato da porre in discussione non solo i vantaggi che Europa e Stati Uniti hanno per decenni ricavato dai loro rapporti commerciali, ma addirittura la stessa coesione politica dell’occidente liberaldemocratico. La sua politica doganale sembra porre sullo stesso pieno un episodio occasionale d’ipotetica concorrenza sleale come quello tra Airbus e Boeing, facilmente risolvibile per via diplomatica, con una concorrenza sleale strutturale, come quella tra Usa (ma anche Europa) e Cina.
Le conseguenze di questa arbitraria e miope equiparazione possono avere non solo conseguenze depressive sulle economie di tutti i paesi coinvolti, ma anche sugli equilibri geopolitici mondiali, conseguenze che potrebbero rivelarsi irreversibili e molto pericolose. Questo nuovo possibile scenario, dovrebbe imporre ai governi europei un confronto franco e lungimirante sulla necessità di promuovere, possibilmente in tempi brevi, la nascita di una vera federazione di Stati europei, perché tutte le sfide che i singoli paesi appartenenti all’Ue si trovano oggi di fronte potrebbero essere gestite in maniera decisamente più efficace rispetto a quanto sembra attualmente possibile.
Dovrebbe cioè risultare finalmente chiaro a tutti che molte contrapposizioni attuali sono per lo più elettoralmente strumentali, mentre oggi è in ballo proprio la reale sovranità di ciascun paese europeo, che nell’attuale contesto geopolitico può essere tutelata e difesa solo da un accordo efficace, di tipo federale o confederale, tra tutti i paesi che condividono i valori della liberaldemocrazia. Senza una svolta di questo tipo, la sola in grado di tutelare l’Europa dagli effetti di una globalizzazione indiscriminata e scriteriata e di un sovranismo miope e scellerato, le contraddizioni della sua precaria unione sono destinate a esplodere prima di quanto mostrano di credere i principali leader europei.
Aggiornato il 08 ottobre 2019 alle ore 12:14