Arabia Saudita: l’“effetto collaterale” yemenita

In un mio articolo datato 25 marzo 2019 pubblicato su questa testata scrivevo: “Ad oggi Teheran e Riyad, hanno combattuto tramite ‘intermediari’, non risultano realmente predisposti ad un coinvolgimento diretto dei rispettivi eserciti, ma un attacco missilistico di successo diretto a Riyad, dallo Yemen, potrebbe sconvolgere la bilancia degli equilibri”.

Era prevedibile che la crisi yemenita non potesse restare “imbrigliata” nell’estremo sud della penisola araba; questa innaturale coabitazione tra “il Nord e il Sud dello Yemen”, ha demarcato, nel “pantano sociologico” creato, uno schieramento di Stati apparentemente su base confessionale, che vede la parte nord composta da sunniti wahabiti, appoggiati dall’Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Bahrein, Egitto e Giordania, scontrarsi con gli Houthi del sud di confessione sciita, legati e sostenuti dall’Iran. Questi conflitti e tensioni si sono moltiplicati in una escalation di violenza in un sistema politico confuso. La conquista nel 2014 della capitale Sana’a da parte degli Houthi ha elevando il livello degli interessi sul piano geopolitico, facendo emergere “attenzioni” a livello globale, portando gli obiettivi iraniani e sauditi in un contesto geostrategico e geoeconomico.

Il bombardamento con droni degli impianti petroliferi della Saudi Aramco a Abqaiq e Khurais è solo un aspetto dell’estenuante conflitto yemenita, verosimilmente gli attacchi con droni armati sono stati organizzati dalla fazione Houthi filo-iraniana; tuttavia, ha riferito sabato il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, che non ci sono prove che questo “attacco senza precedenti alla fornitura di energia globale” (dimenticandosi la Guerra del Golfo) sia arrivato dallo Yemen, nondimeno l’accusa a Teheran di essere il regista dell’“operazione” è stata chiaramente manifestata. Pompeo ha anche aggiunto: “Chiediamo a tutti i Paesi di condannare pubblicamente e inequivocabilmente gli attacchi dell’Iran. Gli Stati Uniti lavoreranno con i nostri partner e alleati per rifornire i mercati dell’energia e ritenere l’Iran responsabile dell’aggressione”.

In risposta, Teheran, tramite il Ministero degli Esteri Abbas Mousavi, ha giudicato le accuse “insensate” e “incomprensibili”; Mousavi ha anche ventilato l’ipotesi che tali accuse siano propedeutiche a giustificare eventuali “azioni future” contro l’Iran. Dopo che il Wall Street Journal ha comunicato che “agenti” statunitensi e sauditi stavano valutando la possibilità che gli attacchi alle istallazioni petrolifere di Abqaiq e Khurais potessero essere stati lanciati dall’Iraq, che attualmente con metodo “cencelliano” è guidato da un primo ministro sciita, Adil Abdul-Mahdi, il portavoce iracheno si è affrettato a negare ogni collegamento con tali azioni “terroristiche”.

Va ricordato che Israele non è indifferente alle evoluzioni che tale conflitto sta assumendo, come sappiamo, sul fronte siriano le azioni di “annichilimento” delle postazioni di Hezbollah (sciite-filo iraniane) posizionate sul confine siro-israeliano, sono sovente colpite anche da droni israeliani, in un vortice di aggressioni reciproche che obbligano Iran ed Israele a confronti sia verbali che “rappresentativamente” e localmente militari. Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita, afferma che il suo Paese è chiaramente un nemico dell’Iran, ed ha garantito che Riyad è “disposto e in grado” di rispondere a questa grave “aggressione terroristica”.

Ritengo che sia molto improbabile che l’Arabia Saudita voglia sostenere una impari e inopportuna guerra diretta e aperta contro l’Iran, ma come ormai è consuetudine e strategia tali tensioni si combattono spesso tramite “delegati”, come accade in tutti i conflitti nel Vicino Oriente e nel centro e nord Africa, dove non mancano le occasioni di assumere opposti schieramenti alimentati apparentemente da motivi confessionali o politici, ma realmente da occasioni esclusivamente economiche.

Le strutture petrolifere di Abqaiq e Khurais, colpite sabato dai droni yemeniti, rappresentano circa il 50 per cento della produzione totale della società Saudi Aramco. A regime forniscono 5,7 milioni di barili al giorno e rappresentano il 5 per cento della produzione mondiale di petrolio greggio di cui l’Arabia Saudita è il maggiore esportatore mondiale. Il principe Abdulaziz bin Salman, ha affermato, domenica, che gli attacchi hanno portato alla “sospensione temporanea della produzione” nei due siti colpiti. L’area di Abqaiq, a 60 chilometri a sud ovest di Dahran, è la sede legale del gigante petrolifero, ospita il più grande impianto di lavorazione del petrolio dell’azienda pubblica Saudi Aramco, ed è uno dei principali giacimenti petroliferi.

L’attacco arriva mentre la società Aramco stava preparando la sua Ipo (initial public offering), la quotazione in Borsa della Saudi Aramco era pronta dopo una difficile trattativa nella scelta degli Istituti di Credito da coinvolgere; quali la Morgan Stanley e la JpMorgan Chase, già “consulenti” nella lunga fase preliminare, insieme alla saudita Samba Financial Group, alla Goldman Sachs, alla National Commerce Bank, alla Bank of America Merrill Lynch, alla Citigroup, alla Hsbc e alla Credit Suisse. Le citate aziende di credito, attori di questa operazione bancaria di spessore internazionale, domenica mattina, quando è stata aperta la Borsa dell’Arabia Saudita, hanno visto perdere il 3 per cento ed il settore energetico è sceso del 4,7 per cento.

Analizzando nel complesso “il fatto”, la strategica e forse non casuale puntualità dell’attacco “dronico” agli impianti della Saudi Aramco, rileva una valenza del “gesto” molto più ampia del banale attacco terroristico ad un impianto petrolifero, ma denota una visone globale macroeconomica lucidissima, una consapevolezza dei “tempi” altrettanto sorprendente e, a mio avviso, sminuisce anche le paventate crisi tra Iran, Arabia Saudita, Usa, Israele ecc., delineando, forse, il profilo di un regista dalle connotazioni geopolitiche trasversali ed un evidente “livello superiore” al quale fanno riferimento “sistemi” dotati di strumenti idonei ad agire per una “gestione economica globale”.

Aggiornato il 17 settembre 2019 alle ore 11:52