Via libera Ue all’intesa sulla Brexit, May: “avanti”

L’accordo di divorzio fra Ue e Regno Unito c’è e non si tocca. I puntini sulle ‘i’ arrivano all’unisono da Michel Barnier come da Theresa May, nonostante le turbolenze politiche di Londra, mentre a Bruxelles i ministri del Consiglio affari generali dei 27 danno un via libera compatto - al di là di qualche riserva (senza veto) della Spagna sul dossier di Gibilterra - alla bozza d’intesa destinata, intoppi permettendo, a chiudere i conti sul passato. Quelle 585 pagine di clausole, di compromessi, di obblighi (soprattutto a carico britannico) e di equilibrismi non si cambiano, è il messaggio che risuona su entrambe le sponde della Manica. Mentre i negoziati si spostano d’ora in avanti sui contenuti con cui andrà riempita la dichiarazione allegata sulla ‘cornice’ delle relazioni future. Dichiarazione pure fresca d’inchiostro e tuttavia già soggetta a richieste di approfondimento e correzioni un po’ da ogni parte: in primis da Downing Street, sullo sfondo delle pressioni e delle accuse che la premier di Sua Maestà continua a subire in casa sua, specialmente dai brexiteers ultrà intenzionati a sfiduciarla come leader del Partito Conservatore malgrado qualche segnale di rallentamento nella raccolta del quorum di 48 firme di deputati necessario almeno a lanciare la sfida (ne mancano una ventina).

Il primo traguardo per sancire definitivamente il passo avanti nella sfiancante trattativa innescata dal referendum di due anni e mezzo fa è a questo punto il vertice straordinario Ue del 25 novembre. “Inizia una settimana molto dolorosa per la politica europea, 45 anni di un matrimonio difficile sono giunti al termine”, sintetizza già coi toni dell’epitaffio il ministro austriaco per gli Affari europei Gernot Bluemel. Mentre Barnier, impeccabile e apparentemente instancabile nei panni di capo negoziatore del club, parla di “momento decisivo” esaltando “i progressi fatti”, non senza sfoggiare, come d’incanto, anche la toga di difensore d’ufficio della May. Col riconoscimento al primo ministro britannico di aver contribuito a mettere le basi per “un ritiro ordinato” dall’Unione e persino d’aver raggiunto il proprio obiettivo di non tradire la Brexit incamminando il Regno verso il recupero del controllo di una piena “sovranità”. Ora resta sul tavolo l’ipotesi di una possibile proroga della fase di transizione, improntata allo status quo, che i 27 offrono all’isola per alleggerirla dai contraccolpi immediati dell’addio e garantire più tempo per sciogliere i nodi aperti.

A Bruxelles si evoca un’estensione dalla fine del 2020 alla fine del 2022. Ma Barnier rinvia un’indicazione precisa, mentre May preannuncia una tappa a Bruxelles prima del summit per discutere di alcuni passaggi ancora da chiarire, escludendo comunque che la proroga (non gratuita) possa andare oltre la legislatura in corso (metà 2022). E precisando inoltre - sempre per cercare di non alimentare ulteriormente i furori dei falchi Tory - di voler sgomberare il campo dalle interpretazioni di un punto della dichiarazione sulle relazioni future che sembrerebbe lasciare aperto lo spiraglio di una permanenza definitiva della Gran Bretagna nell’unione doganale europea. “L’ultima tappa è sempre la più dura, ma non abbiate dubbi: sono determinata ad attuare” la Brexit e l’intesa di divorzio appena raggiunta, proclama d’altronde May dinanzi all’assise di Confindustria britannica (Cbi), cercando almeno il sostegno del mondo del business prima di giocarsi il tutto per tutto in Parlamento. Un sostegno che ottiene a metà, raccogliendo applausi, ma anche bacchettate. Come quando cerca d’ingraziarsi gli imprenditori promettendo loro di poter reclutare in avvenire specialisti “qualificati” dall’estero dove vorranno, “secondo il merito”, senza migranti europei a “saltare la fila” rispetto a “ingegneri di Sydney o sviluppatori di software di Delhi”. Salvo sentirsi rispondere da Carolyn Fairbain, numero 1 della Cbi, che la fine della libertà di movimento produrrà comunque “uno scossone” sull’economia dell’isola. E che il governo farebbe bene a finirla con “la falsa scelta fra lavoratori stranieri ad alta e bassa qualificazione per puntare a un sistema migratorio basato sulla contribuzione: non sui tetti numerici”.

Aggiornato il 20 novembre 2018 alle ore 12:25