Il rispetto dei diritti umani è il criterio che distingue un governo da un regime. La Repubblica islamica dell’Iran rappresenta pertanto un esempio in negativo di quello che un governo non dovrebbe mai fare nei confronti dei propri cittadini, se non vuole trasformarsi in regime. L’elenco dei capi d’imputazione, per i quali il regime khomeinista meriterebbe una condanna senz’appello da parte del Tribunale Penale Internazionale, è molto lunga. Da dove cominciare? La “Giornata mondiale contro la pena di morte” del 10 ottobre ha riportato al centro dell’attenzione l’elevato tasso di esecuzioni per impiccagione disposte dai cosiddetti Tribunali Rivoluzionari a giovani appena maggiorenni, condannati prima del raggiungimento dei 18 anni. Insieme a loro, troviamo oppositori politici, membri delle minoranze etniche (curdi, sunniti arabi e baluci) e membri delle minoranze religiose (la sentenza di morte nei confronti di un sufi è stata eseguita nel mese di giugno).
Le esecuzioni, secondo un recente rapporto del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, sarebbero diminuite nel corso degli ultimi due anni (482 nel 2017 rispetto alle 530 del 2016 e alle 969 del 2015), probabilmente per rendere meno imbarazzante il compito di quegli Alti rappresentanti delle politiche estere europee che stanno facendo di tutto pur di proteggere Teheran dalle sanzioni internazionali ripristinate dall’amministrazione Trump a causa del suo sospetto programma nucleare. D’altro canto, il rapporto del Consiglio per i Diritti Umani cita le stime ufficiali fornite dalle stesse autorità iraniane e non tiene conto delle morti “segrete” che avvengono nelle carceri sparse per il Paese, dove la vita è il prezzo da pagare per quanti non intendono sottomettersi al regime khomeinista, il quale continua a reprimere nel sangue il crescente malcontento popolare ed è pronto all’impiccagione di oltre 80 adolescenti non appena avranno compiuto la maggiore età.
Sul regime carcerario, il Consiglio per i Diritti Umani afferma inequivocabilmente la persistenza di “torture e maltrattamenti”. Nel dettaglio, il rapporto menziona “pressioni fisiche o mentali nei confronti dei prigionieri per estorcere confessioni”, provocando ad esempio “traumi contusivi” e ricorrendo a “torture posizionali, ustioni, […], scosse elettriche, uso di acqua, schiacciamento, torture farmacologiche, asfissia e amputazione, così come alla privazione del sonno, minacce, umiliazione e isolamento prolungato”. In alcuni casi, gli interrogatori durante i quali vengono utilizzati simili metodi vengono “filmati e poi divulgati a livello pubblico”. Le condizioni dei detenuti, a dir poco degradanti, sono un corollario a tutto ciò, così come gli abusi di cui sono vittime soprattutto donne e minorenni.
I Tribunali Rivoluzionari, presenti in tutte le principali città, non hanno rallentato i ritmi delle loro condanne a pene “crudeli, inumane e degradanti, come l’amputazione di arti, l’accecamento e la fustigazione, secondo le disposizioni del Codice Penale”. In un contesto simile, non si può certo pretendere che “i processi, inclusi quelli risultanti in condanne a morte”, non siano “sistematicamente ingiusti”, come denuncia Amnesty International. I giudici sono tutti nominati dalla Guida Suprema Ali Khamenei, erede di Khomeini, e non per la loro comprovata professionalità e indipendenza ma, spiega sempre Amnesty International, “sulla base delle loro opinioni politiche e della loro affiliazione con gli organismi dell’intelligence”. Inoltre, le prove utilizzate contro gli imputati non sono rese note perché vaghe se non del tutto inconsistenti, sebbene le disposizioni dei tribunali rivoluzionari siano definitive e non possano essere impugnate.
Gli ingiusti processi dei Tribunali Rivoluzionari mietono vittime specie tra i dissidenti e gli attivisti della società civile impegnati a favore dei diritti umani e delle donne. Il rapporto del Consiglio per i Diritti Umani cita, tra gli altri, Arash Sadeghi, esponente di punta dell’Onda Verde anti-regime del 2009, più volte arrestato, torturato e infine condannato nel 2016 a 15 anni di carcere per “aver diffuso propaganda contro il sistema”, “complottato contro la sicurezza nazionale” e “insultato il fondatore della Repubblica islamica”. Sadeghi si trova ora nella prigione di Rajaee Shahr, a 20 km da Teheran, dove è stato trasferito da Evin, il famigerato penitenziario della capitale, in critiche condizioni di salute a causa del suo prolungato sciopero della fame. Le autorità iraniane sostengono che a Sadeghi è garantita costante assistenza medica, circostanza smentita dal Consiglio per i Diritti Umani.
In sciopero della fame e in precarie condizione di salute è anche Soheil Arabi, arrestato nel 2013 dai Pasdaran – i Guardiani della rivoluzione islamista – e condannato a morte per blasfemia per un post su Facebook. Il Consiglio per i Diritti Umani attesta che Arabi “è stato picchiato durante un interrogatorio” e che ciò, insieme a un “accesso insufficiente a cure mediche, medicine e vestiti caldi” da indossare, abbia fatto precipitare le sue condizioni di salute. Naturalmente, le autorità iraniane negano. Il rapporto del Consiglio per i Diritti Umani risale allo scorso mese di marzo e non può contemplare il caso di Farhad Meysami, un uomo la cui protesta prosegue incessantemente anche da Evin, dove è stato rinchiuso lo scorso 31 luglio per aver distribuito una spilla che esprimeva la sua opposizione al velo obbligatorio per le donne. Meysami è in sciopero della fame da oltre 60 giorni e si rifiuta di assumere medicinali.
Fare prigionieri politici per una semplice spilla, significa molto probabilmente che reprimere il movimento contro il velo obbligatorio, lanciato alla fine del dicembre 2017 da giovani donne che hanno sfidato il fondamentalismo dei mullah iraniani togliendosi il velo in luoghi pubblici, è di vitale importanze per la sopravvivenza del regime khomeinista, ideologicamente fondato sulla sottomissione della donna e sulle discriminazioni politiche, sociali e giuridiche che ne conseguono. Le donne che hanno supportato apertamente le campagne online “My Stealthy Freedom” e “#whitewednesdays”, sono “molestate dalle autorità”, afferma il rapporto del Consiglio per i Diritti Umani, e ciò include la possibilità di “essere interrogate” o di “firmare dichiarazioni secondo le quali non usciranno senza un hijab adeguato”.
Sul versante della libertà di espressione e di stampa, il rapporto fa notare che nel corso degli ultimi tre anni, il regime “ha chiuso 7 milioni d’indirizzi web, tra cui Facebook, Twitter, Instagram, BBC Persian, e i siti web di gruppi che si occupano di diritti umani e gruppi di opposizione politica”. Come se non bastasse, continuano a verificarsi “arresti arbitrari, detenzioni, molestie ai danni di giornalisti, di operatori dei media e delle loro famiglie”. “L’organizzazione Giornalisti senza Frontiere - dice il Consiglio per i Diritti Umani - ha stimato che nell’agosto 2017 erano 27 i giornalisti detenuti in Iran”, mentre “94 utenti internet, soprattutto di Telegram, erano stati arrestati dall’inizio del 2017”. Infine, Giornalisti senza Frontiere “ha documentato le minacce dirette e indirette, incluse quelle di morte, rivolte dai servizi d’intelligence o dal sistema giudiziario ad almeno 50 giornalisti basati all’estero”.
Non può allora andare meglio alla libertà religiosa, “sistematicamente violata, nella legge e nella pratica”, riporta Amnesty International. I Baha’i sono il gruppo religioso non-sciita più colpito, con “arresti arbitrari, lunghe detenzioni, torture e maltrattamenti, la chiusura forzata di attività economiche, la confisca di beni, il divieto di essere assunti nel settore pubblico e di accedere alle università”. Ma gli attacchi ai cristiani, che sono riconosciuti dalla costituzione della Repubblica islamica a differenza dei Baha’i, sono in aumento. L’apostasia è reato penale: “I convertiti al cristianesimo ricevono dure condanne al carcere, che variano tra i 10 e 15 anni”, spiega Amnesty International, mentre “i raid nelle abitazioni adibite a chiese continuano”. I 45 anni di detenzione riservati a Victor Bet-Tamraz, Amin Afshar-Naderi, Shamiram Issavi e Hadi Asgari, membri della Chiesa evangelica e in attesa del verdetto di appello, segnalano un salto di qualità nella repressione del regime khomeinista anche verso i cristiani. Repressione, violazioni dei diritti umani, marginalizzazione e ingiustizie caratterizzano la vita sotto il regime khomeinista anche dei sunniti, il cui malcontento va a intrecciarsi con rivendicazioni indipendentistiche sia nella regione del Belucistan che nel Khuzestan, dove la componente araba è maggioritaria e un recente attacco terroristico a colpito come un boomerang proprio i Pasdaran.
Alla luce dello scenario interno iraniano, risulta molto difficile continuare a coltivare l’illusione ottica secondo la quale il regime khomeinista sarebbe un partner fondamentale dell’Europa e della comunità internazionale nel garantire la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente. Piuttosto, andrebbe considerato che la Repubblica islamica intende espandere il suo modello rivoluzionario in tutta la regione e questo non è certo di buon augurio per il futuro dei diritti umani in Paesi come Iraq, Siria, Yemen e Libano.
Aggiornato il 12 ottobre 2018 alle ore 10:26