Più lo attacchi e più diventa forte. È questa la cifra della vicenda storica e politica del Sultano neo-ottomano Recep Tayyip Erdogan, emerso finora con forza sempre maggiore da ogni situazione di crisi e difficoltà frappostasi lungo il cammino verso la conquista del potere assoluto. Specie negli ultimi anni, quelli che hanno visto il consolidamento del suo trono nel palazzo imperiale (più che presidenziale) di Ankara, già prima del presunto fallito golpe gulenista. Il palazzo lo ha costruito per sé e nessun altro potrà insediarvisi prima che il Sultano stesso non venga richiamato a miglior vita, a meno che un giorno ancora molto lontano non decida egli stesso di abdicare a favore di un suo delfino.
I 300mila dollari di costi giornalieri, che sono stati messi in luce – coraggiosamente – dalla Corte dei Conti turca e hanno scandalizzato il mondo intero, rappresentano un altro boccone amaro per la metà non islamista della Turchia e per quei nazionalisti che portano sulla coscienza il peso di aver tradito l’eredità di Ataturk per un posto a corte, al governo e in parlamento. Un boccone amaro da ingoiare in silenzio, naturalmente. Il silenzio definitivo che è ormai sceso sulla libertà di stampa e di espressione, con giornalisti condannati all’ergastolo e altri costretti alle dimissioni “volontarie”, attivisti, oppositori e gruppi rock imprigionati, alcuni in perenne attesa di processo. Guai quindi a lamentarsi, nemmeno su Facebook, dell’inflazione al 25 per cento, dovuta senza giri di parole al crescente indebitamento estero con cui il Sultano ha finanziato la sua stessa ascesa. Meglio non discostarsi dalla narrativa imperiale, da novello Khomeini, con cui Erdogan punta quotidianamente il dito contro il complotto dell’occidente. Il popolo turco non si piegherà alle sanzioni internazionali, ha Dio dalla sua parte.
Nel suo immaginario, Erdogan crede davvero di essere uno strumento divino ed è la volontà dei cieli quella che egli starebbe attuando sulla terra attraverso l’apparato ideologico della Fratellanza Musulmana, la fonte primaria dell’estremismo internazionale ormai da quasi 100 anni. La Rabhia, il saluto a quattro dita dei Fratelli Musulmani, è divenuto parte integrante della gestualità del Sultano, che si rivolge alle decine di milioni di Fratelli Musulmani sparsi in tutto il mondo: in Medio Oriente, Asia, Africa e in Europa. Del nuovo islamismo internazionale avanzante, anche grazie alla sponda del Qatar e del regime khomeinista iraniano, Istanbul deve essere il centro principale. Ed è infatti nel pieno centro della città, nella turistica piazza Taksim, luogo della movida per eccellenza e pertanto della corruzione morale di cui l’occidente è portatore, che stanno per essere ultimati i lavori di una nuova grande moschea, costruita in poco più di un anno e destinata a sovrastare l’area, svuotandone con il passar del tempo la vitalità, nonché l’anima libera e democratica.
D’altra parte, “per costruire il futuro dovremmo incoraggiare una vita incentrata sulla moschea”, ha recentemente affermato il Sultano e tutto il resto è conseguenza, a partire dal settore dell’istruzione sia pubblica che privata, per non parlare ancora dei media, fino alla costruzione del nuovo aeroporto a Istanbul: i morti e i feriti tra gli operai si contano a decine, ma sarà l’aeroporto più grande del mondo e soprattutto, a differenza di quello attuale, non porterà più il nome di Ataturk, il cui processo di accantonamento nella memoria storica del popolo turco è stato avviato. In realtà, per i seguaci di Erdogan Ataturk non ha mai rappresentato il padre della patria, quanto piuttosto il grande colpevole che ha sancito la fine del Califfato e ora anche la sua era deve subire la stessa sorte per mano del nuovo Sultano.
L’anima islamista, che non si è lasciata scalfire dal processo di modernizzazione e cambiamento legato alla figura di Ataturk, vede in Erdogan un dono mandato da Dio e ciò gli conferisce il diritto a quella sfrontatezza con cui continua a sfidare tutto e tutti: dopo la contestata visita in Germania per riscuotere il sostegno economico di Angela Merkel, pena un nuovo sfondamento della porta di Berlino da parte di migliaia di migranti attraverso la rotta balcanica, il Sultano ha proposto provocatoriamente il rilancio dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea e ha poi intimato alle compagnie petrolifere di altri paesi di non avventurarsi al di là di una certa soglia nelle acque contese a largo di Cipro (e l’Eni ne sa già qualcosa). In Siria si candida nel ruolo di pacificatore, combattendo ad Idlib i jihadisti che su suo stesso ordine Ankara ha finanziato durante questi otto anni di guerra civile e che non hanno accettato l’accordo siglato con il presidente russo Vladimir Putin. Mentre è dell’ultim’ora la clamorosa intromissione nella crisi migratoria che riguarda proprio l’Italia, con l’offerta alla nave Aquarius ferma a Marsiglia di riprendere le sue contestate operazioni di salvataggio di migranti nel Mediterraneo con la protezione della marina turca. La domanda allora sorge spontanea: come fermeremo il Sultano Erdogan?
Aggiornato il 10 ottobre 2018 alle ore 11:14