Dopo la strage di Istanbul le analisi, i commenti, le ipotesi si sono affastellate le une sulle altre, in un’inestricabile (o quasi) groviglio di verità, mezze verità e grossolane menzogne. Al di là di queste ultime, è tuttavia utile, a mente più fredda, tentare di analizzare il contesto di quanto avvenuto, per cercare, per quanto possibile di separare la pula dal grano.
Innanzi tutto tendiamo a mettere da parte l’ipotesi che l’attacco jihadista sia stato motivato dalla volontà dell’Is di dare una risposta cruenta alla svolta politica portata avanti, proprio in questi giorni, da Erdogan che ha riaperto il dialogo da un lato con Israele, dall’altro con Mosca. Aperture, certo, importanti e, presumibilmente, destinate a segnare il futuro prossimo del quadrante medio-orientale; tuttavia aperture troppo recenti, avvenute nei giorni o addirittura nelle ore immediatamente antecedenti all’attacco all’aeroporto “Ataturk”. Attacco che ha certo richiesto una ben più lunga programmazione e gestazione. Piuttosto, si deve guardare al crescente impegno delle forze armate turche contro l’Is sia in Siria che in Iraq. Un impegno che – per quanto inspiegabilmente sottaciuto o sottovalutato sui grandi media italiani – è risultato determinante per costringere alla ritirata le forze del Califfo.
Inevitabilmente, poi, l’Is, in difficoltà in Medio Oriente, risponde con un’intensificazione degli attacchi terroristici all’estero. Anzi, andrebbe ricordato come, a differenza della rivale Al Qaeda, lo Stato islamico abbia posto in essere una strategia fondata su attacchi terroristici – mirati ed organizzati con criterio “militare” – solo dall’autunno scorso, quando Parigi venne colpita come risposta ai bombardamenti francesi in Siria. E fu proprio in quell’occasione che – secondo fonti di intelligence anglosassoni – al-Baghdadi fece scendere per la prima volta in campo la sua “divisione operazioni all’estero”, che poi ha colpito a Bruxelles ed oggi anche a Istanbul. Dunque ci troviamo di fronte ad un’operazione terroristico-militare attentamente pianificata sul campo ed anche sotto il profilo “politico”, non all’azione di un gruppo locale, pur collegato all’Is, come quello che, in queste ore, ha fatto strage di italiani in Bangladesh. E lo dimostra anche il fatto che gli attentatori di Istanbul erano un daghestano, un uzbeko, un kirghiso, e la mente sarebbe stato un jihadista ceceno.
Tutti foreign fighters, dunque, forgiatisi nello scenario siro-irakeno, e che oggi vengono utilizzati dall’Is in due diversi modi. In primo luogo per andare ad innervare e organizzare gruppi jihadisti che già operano nelle loro terre d’origine, rendendoli ben più operativi e pericolosi di quanto erano stati fino ad ora. Questo spiegherebbe l’intensificarsi di attacchi di gruppi o cellule dell’Is in Yemen, in Asia Centrale, in Afghanistan e, appunto, oggi in Bangladesh. In seconda istanza, questi “combattenti di ritorno” costituiscono l’ossatura di una sorta di Legione Straniera del Terrore, capace di colpire nei luoghi più diversi.
Da un punto di vista strategico, poi, colpire l’aeroporto “Ataturk”, significa cercare di tagliare la giugulare della rete del trasporto aereo fra Europa ed Asia. Un hub fondamentale, che costituisce uno degli assi portanti della nuova Via della Seta, il complesso di “reti multimediali” – trasporto, comunicazione, pipeline – che sta venendo a costituire il tessuto principale dei traffici fra Cina e Mediterraneo. La principale “Via” alternativa a quella dell’area pan-pacifica, dalla quale dipendono economie ed equilibri politici non solo dell’Europa, ma un po’ di tutta l’Asia e della stessa Pechino.
Infine, la situazione politica interna della Turchia sta attraversando un momento estremamente delicato. Al rinnovarsi dello scontro con gli indipendentisti curdi del Pkk e della sua figliazione estremista del Tdk – responsabile della recrudescenza terroristica – corrisponde un equilibrio politico alquanto difficile, nonostante l’Akp del presidente Erdogan goda di una solida maggioranza. Tuttavia, oltre all’opposizione formata da una variegata compagine che va dai nazionalisti ai repubblicani di Ataturk sino all’Hdp, il partito democratico filo-curdo, Erdogan deve vedersela con notevoli tensioni interne al suo stesso Akp. La rottura con il suo predecessore Gul, prima, poi con Davutoglu, a lungo suo principale consigliere oltre che ministro, e la faida sanguinosa con Fethullah Gülen, il potente tycoon dei media che risiede negli Usa e che, dopo averlo appoggiato, è divenuto il nemico giurato del Sultano…
Tutti segnali di tensioni interne e di precarietà che, certo, non sono sfuggite agli strateghi del terrore, che si muovono dietro le azioni dei jihadisti che colpiscono sul terreno. Strateghi capaci di analisi molto più raffinate e sottili di quanto noi “occidentali” siamo soliti pensare.
(*) Think tank “Il Nodo di Gordio”
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:09