Libia, la nostra intelligence

La presenza in Libia della nostra intelligence (anche se allora non era questa e non si chiamava così) nacque sotto una cattiva stella. Infatti facemmo una guerra nel 1911 nella certezza che sarebbe durata pochi mesi: la stessa, fatale illusione coltivata poi nel 1915 e, ancor di più, nel 1940. Per la conquista di quello che Gaetano Salvemini aveva definito "uno scatolone di sabbia" ritenevamo, in base appunto alle informazioni raccolte, che gli arabi si sarebbero sollevati contro l'impero ottomano e si sarebbero schierati a nostro favore.

Abbiamo visto come andò a finire con una resistenza piegata poi, e in modo feroce, solo dal fascismo nel 1932, grazie all'apporto determinante dei reparti speciali dei Carabinieri impegnati anche in azioni di intelligence. Nel secondo dopoguerra la politica di Mattei pone le premesse per la supremazia energetica italiana nel Paese. E l'ENI sviluppa di fatto un servizio di intelligence privato che nel corso degli anni si affiancherà a quello nazionale, come confermano le recenti dichiarazioni del Premier Matteo Renzi: "L’ENI è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence".

Nel 1969 il nostro servizio segreto, che allora si chiamava SID e il Ministro degli Esteri era Aldo Moro, sostenne l'ascesa di Gheddafi, che si era formato nelle accademie militari italiane e che abbatté la monarchia filo-britannica. Anche se gli italiani vennero espulsi e i loro beni sequestrati, subito dopo l'industria petrolifera, controllata fino ad allora in prevalenza dai britannici, venne nazionalizzata e diventò invece preminente la posizione italiana. Gli anni Settanta, quelli delle trame, videro lo scandalo denominato M.Fo.Biali, legato alla nascita di un nuovo partito cattolico e al commercio illegale del petrolio libico, con scandali che vennero rivelati dal giornalista Mino Pecorelli nella sua rivista OP. Anche in questo caso, i servizi, più o meno deviati, a giusta ragione o meno, sono stati chiamati pesantemente in causa.

La nostra politica estera, distinta tra filo israeliani e filo arabi e di cosiddetta "equivicinanza", nella cosiddetta prima repubblica vide le posizioni espresse sopratutto da Aldo Moro e da Giulio Andreotti, entrambi con ruoli rilevanti nella politica estera e con naturali e istituzionali riferimenti nei vertici dei servizi. Con ricadute anche in Libia e nel Medi Oriente. La stessa vicenda dell'aereo abbattuto a Ustica, secondo alcune interpretazioni, riguarderebbe proprio il tentativo mal riuscito dell'abbattimento dell'aereo su cui viaggiava Gheddafi da parte dei francesi, con i nostri servizi ampiamente coinvolti nelle successive fasi del processo. Come si vede anche per grandi linee, quella dei nostri Servizi nelle vicende libiche è una presenza tormentata. Arrivando alla presunta seconda Repubblica, Berlusconi intesserà importanti relazioni, anche personali, con Gheddafi, culminate anche con la sottoscrizione di un trattato di amicizia nel 2008 a Bengasi, per mettere fine a decenni di "malintesi". Ma la politica del centro-sinistra di Prodi e D'Alema non si era poi discostata di molto.

Non a caso la Libia aveva investito nelle principali industrie nazionali, a cominciare dalla Fiat già nel 1976. Tutte iniziative seguite e monitorate dalla nostra intelligence. Arriviamo, quindi, alle "primavere arabe", tra le quali anche la "rivoluzione dei gelsomini", che hanno di molto contribuito a creare i terribili squilibri attuali e la destabilizzazione di tutta l'area mediterranea, favorendo di fatto altre regioni del pianeta. L'intervento in Libia venne promosso dalla Francia che, perdendo posizioni in Algeria, intendeva riconquistarle proprio dove l'Italia riusciva a esprimere il sistema-Paese con aziende che realizzavano l'interesse nazionale, ottenendo prestigio globale: l'ENI aveva una posizione predominante nell'economia del petrolio e più di recente l'Unicredit a livello bancario era diventato un punto di riferimento, vincendo la concorrenza degli istituti bancari europei, a cominciare dalla francese Paribas.

Sullo sfondo c'è la rinata centralità del Mediterraneo, che, con quasi un miliardo e mezzo di persone, sarebbe dovuta diventare l'area di libero scambio più estesa del pianeta. Com'è noto, l'allora Presidente del Consiglio Berlusconi era contrario all'iniziativa militare ma alla fine l'Italia concesse l'utilizzo delle basi per i bombardamenti. Una vicenda che sarà più chiara col tempo, magari tra qualche anno quando si avrà accesso agli atti dei servizi italiani e dei Paesi occidentali. Durante gli scontri che si verificarono, la nostra intelligence collaborò con quella dell'ENI per esfiltrare, cioè per fare rientrare, i trecento tecnici dell'ENI attraverso il Sudan. Nel corso degli anni infatti la nostra intelligence è diventata affidabile per le varie tribù, tanto che non abbiamo subito attentati significativi agli impianti che fanno riferimento all'ENI. Da allora però la Libia rappresenta la metafora del fallimento delle "rivoluzioni arabe" non solo con la rinascita delle lotte che vede il Paese spaccarsi in due ma anche con l'aggiunta dell'arrivo del DAESH che, trovandosi in difficoltà sia in Siria che in Iraq, vi trasferisce i vertici dell'organizzazione, potendo contare su circa 10 mila seguaci. La Libia, quindi, diventa la nuova frontiera del Jihad, sopratutto per controllare i giacimenti energetici.

Infatti, il DAESH per sostenersi ha bisogno di ingenti risorse finanziarie fisse. Quelle che appunto provengono, oltre che dai finanziamenti degli emiri della penisola araba, anche dallo sfruttamento dei pozzi di petrolio, che poi viene venduto a compagnie ombra che lo commercializzano in giro per il mondo, verosimilmente anche in Italia. In tale quadro, è maturato nello scorso luglio il sequestro dei quattro tecnici italiani della Ditta Bonatti che collabora con l'ENI, i cui operatori, invece, seguono precise procedure per gli spostamenti e i loro comportamenti, predisposti e verificati dall'intelligence interna dell'azienda che ha come responsabili negli ultimi anni dirigenti che provengono direttamente dalle agenzie nazionali. Tali regole invece non sono state seguite dai rapiti, che non si capisce peraltro da chi siano stati sequestrati, poiché sia il governo provvisorio di Tobruk (quello riconosciuto dalla comunità internazionale) che quello di Tripoli negano il loro coinvolgimento, anche indiretto.

Potrebbe essere pure improbabile che siano in mano al DAESH poiché l'area dove si è realizzato il sequestro, la Tripolitania, è quella con minore presenza di fondamentalisti. Probabilmente potrebbero esserne stati bande di delinquenti a effettuare il sequestro per soldi, tanto che è stato richiesto il riscatto. Oppure vi sono delle tribù sopratutto di estrazione Cirenaica o del Fezzan che comunque godono di una certa rappresentanza politica e che intenderebbero in qualche modo affermare la propria capacità di governo del territorio e di amministrazione della giustizia. Una delle ipotesi è che nel momento in cui anche queste tribù avranno il proprio rappresentante all'interno dell'assise che sancirà la rinascita di un Governo libico la situazione per i tecnici potrebbe sbloccarsi, sempre che nel frattempo non siano già stati venduti ad altri gruppi operanti nella zona di Sirte.

In tal caso, la casa di produzione media-video di DAESH, ovvero Al Furqan (video) e Al Hayat (handbill e mensile Dabiq) trasmetterebbero on line un qualche video con i nuovi prigionieri, per una serie di ragioni legate alla massiva capacità di conoscenza delle leggi sulla comunicazione che i fondamentalisti conoscono molto meglio di tanti occidentali. E ancora non abbiamo elementi sufficienti per comprendere la reale portata dell'iniziativa italiana tesa a favorire le recenti prove tecniche di pacificazione tra i due governi contrapposti, che si sono incontrati nella conferenza di Roma del dicembre del 2015. In ogni caso, per l'Italia si potrebbe verificare l'occasione per riparare i danni causati da Francia e Regno Unito all'indomani della caduta di Gheddafi. Non a caso, siamo i soli a poter organizzare un corridoio di entrata e di gestione della "cosa pubblica" (e privata) in Libia. Altrimenti continuerà il caos per tutti coloro che poseranno i piedi su quelle spiagge.

In tal modo, potremmo avere un'ottima possibilità per gestire l'immigrazione, far cessare l'economia nera da traffico di esseri umani, riprendere il controllo delle riserve energetiche italiane. Se non ci riusciremo dovremo ripensare tutta la gestione delle risorse energetiche in Europa, dipendendo in modo preponderante dagli emiri. In definitiva, il ruolo della nostra intelligence nell'area è storicamente fondamentale, e non solo perché è stata proprio l'Italia a "inventare" la Libia. Nel Paese africano, sempre più scosso da tensioni contrapposte, sia l'ENI che l'AISE hanno tradizionalmente buone relazioni con i capi tribali. E questo nostro radicamento è malvisto dalle altre intelligence straniere. Quindi noi siamo effettivamente importanti per favorire il processo di pacificazione per contrastare l'infiltrazione del DAESH, tutelando i nostri interessi nazionali.

Le relazioni dei libici con noi sono molto buone. Non a caso quando nelle settimane scorse kamikaze fondamentalisti hanno assaltato una caserma delle nuove reclute del governo di Tobruk i feriti gravi sono stati trasportati in Italia. Ci auguriamo che la vicenda dei nostri connazionali sequestrati in Libia non abbia le stesse lungaggini di quella dei due marò in India. Certo che le situazioni sono enormemente diverse, ma a subire entrambe le vicende sono cittadini del nostro Paese che richiedono la massima attenzione del Governo. Occorrono, quindi, azioni strategiche e non mediatiche per affermare il nostro ruolo in uno scacchiere internazionale sempre più contraddistinto dalla necessità dell'intelligence.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:58