L’Europa affoga nello statalismo

Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, intravvede una ripresa nell’eurozona per la seconda metà del 2013. Lo ha dichiarato al World Economic Forum di Davos. E mentre lo diceva, ad Atene piovevano manganelli sui tranvieri in sciopero. E i dati sulla disoccupazione in Spagna rivelavano che più di 1 giovane su 2 fosse senza lavoro. Un marxista accosterebbe queste scene per dimostrare l’oppressione del capitale sui proletari. Un fascista penserebbe che il discorso di Draghi, pronunciato mentre i lavoratori Sud-europei soffrono, sia il simbolo reificato della tirannia dei banchieri “usurai” (possibilmente ebrei e massoni) sui popoli. Un liberale, al contrario, sa che il problema non è il capitale, né è costituito dalle banche. E all’ottimistica visione del futuro che ha Draghi, dovrebbe rispondere: dipende. Dipende dalle scelte politiche che verranno compiute nei prossimi mesi. Perché il problema è politico, prima ancora che economico.

La Grecia è tuttora il Paese meno libero d’Europa. L’Index of Economic Freedom della Heritage Foundation lo colloca in fondo alla classifica del Vecchio Continente e nella fascia bassa (Paesi prevalentemente repressi) del mondo. Nella graduatoria generale si colloca al 117° posto (su un totale di 177), al di sotto della maggioranza delle nazioni in via di sviluppo e di un buon numero di Stati post-comunisti. Il settore pubblico è tuttora dominante nell’economia greca. Il mercato del lavoro è più blindato che in Italia. Un sistema del genere, alla lunga, è insostenibile. La Grecia, per cercare di mantenerlo in piedi, si è indebitata oltre ogni limite accettabile: oggi il suo debito pubblico è pari al 152,6% del Pil. Per riuscire a pagare ancora pensioni e salari pubblici, Atene deve ricorrere ai prestiti internazionali. La troika, costituita da Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, ha concesso alla Grecia 240 miliardi di euro per evitare la bancarotta dello Stato greco. Non si tratta di elemosina, ma di prestiti vincolati a riforme strutturali. È solo a causa di questa pressione che il governo Papandreou (socialista) prima, Papademos (tecnico) poi e Samaras (conservatore) oggi, sono corsi ai ripari con una politica di “austerity”. In cosa consiste? Sostanzialmente in tre mosse: aumentare le tasse, dismettere beni immobili e ridurre stipendi e pensioni. In modo da permettere allo Stato di diminuire le sue spese e aumentare le sue entrate.

Il personale della metropolitana è in sciopero perché è l’ultimo (in ordine di tempo) ad essere rimasto vittima dei tagli: i loro salari sono stati ridotti del 25%. La paralisi del trasporto pubblico ha creato il caos ad Atene. E il governo Samaras ha deciso, ieri all’alba, di intervenire con le maniere forti, mandando la polizia a sciogliere i picchetti dei trasportatori. Il tutto avviene in uno scenario di destabilizzazione politica inquietante. Il partito neonazista Alba Dorata è oggi dato al 10% dei consensi. Fino all’anno scorso era limitato ad un simbolico 1%. Cresce (e diventa più violenta) anche la sinistra estrema. Non solo quella rappresentata in parlamento dal Partito Comunista (Kke) e dalla sinistra alter-mondista (Syriza), ma anche quella extra-parlamentare anarchica. Sono infatti gli anarchici che hanno rivendicato l’ultimo attentato dinamitardo al centro commerciale The Mall, di Atene, che ha ferito due poliziotti. E sono sempre loro dietro ad una serie di attentati, avvenuti negli ultimi due anni, che hanno colpito funzionari, poliziotti e anche giornalisti accusati di essere troppo filo-governativi. Questa forte destabilizzazione politica non fa bene alla Grecia, la cui economia si basa soprattutto sul turismo e sui servizi. I numerosi scioperi dei trasporti, gli scontri di piazza, le minacce degli estremisti, stanno completando l’opera di auto-distruzione di un Paese. Le aziende chiudono una dopo l’altra e la disoccupazione tocca il livello record del 26%. 

Questo vuol dire che l’austerity greca non funziona? No, vuol dire, semplicemente, che non è stata messa in atto. Un conto è tagliare la spesa e aumentare le tasse, tutt’altro è privatizzare e liberalizzare. Samaras (e i due governi che lo hanno preceduto) ha scelto la prima via, per salvare lo Stato a spese dei cittadini. La spesa pubblica, nonostante i tagli, è tuttora al di sopra del 50% del Pil. La tassazione, in compenso, è arrivata ad aliquote (nominali) del 46% sui redditi. E se aggiungiamo le imposte indirette, vediamo che (come in Italia), i greci pagano più della metà di quel (poco) che guadagnano. L’altra via, quella delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni è stata percorsa solo in minima parte. Come dimostra, d’altronde, il 117° posto occupato dalla Grecia nella classifica della libertà economiche. I governi ellenici, vuoi per cultura, vuoi per interessi consolidati da decenni, non riescono a vedere modelli alternativi.

La situazione della Spagna è solo apparentemente meno drammatica di quella della Grecia. Ma, sotto molti aspetti, è analoga. Ha la stessa disoccupazione (26% a livello nazionale, 55% di disoccupazione giovanile) e gli stessi livelli di recessione (il Pil si è contratto dell’1,3% nel 2012). La causa è solo leggermente diversa. Non è la spesa pubblica ad essere andata fuori controllo, ma il mercato immobiliare. Alimentato, però, da una politica (pubblica) di agevolazione dei mutui e dei crediti ai costruttori. Quando è scoppiata la bolla del mercato immobiliare, le banche sono entrate in crisi di conseguenza. Lo Stato si è indebitato, a sua volta, per cercare di salvare il suo sistema creditizio. Oggi la Spagna è un Paese in bilico. Il governo Rajoy (conservatore) è ricorso ai tagli alla spesa pubblica per cercare di riequilibrare i conti e ha provocato una nuova ondata di indignazione. Quel 55% di giovani che non trovano un posto di lavoro sta diventando una “massa di manovra” per l’estremismo. E la frammentazione di un Paese multi-nazionale accelera: questa settimana il parlamento della Catalogna (la regione relativamente più benestante e meglio amministrata) ha votato una dichiarazione di autodeterminazione. I Paesi Baschi non vedono l’ora di andarsene. E Madrid ricorre a minacce dell’uso della forza non troppo velate. Anche qui: lo Stato spagnolo non vuol cambiare, cerca di salvarsi facendo pagare il conto ai suoi cittadini. E la conseguenza è l’estremizzazione della politica. Detto questo, la ripresa di cui parla Draghi è e resta possibile. Se l’eurozona non scoppia prima.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:01