L’Europa affoga nello statalismo

sabato 26 gennaio 2013


Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, intravvede una ripresa nell’eurozona per la seconda metà del 2013. Lo ha dichiarato al World Economic Forum di Davos. E mentre lo diceva, ad Atene piovevano manganelli sui tranvieri in sciopero. E i dati sulla disoccupazione in Spagna rivelavano che più di 1 giovane su 2 fosse senza lavoro. Un marxista accosterebbe queste scene per dimostrare l’oppressione del capitale sui proletari. Un fascista penserebbe che il discorso di Draghi, pronunciato mentre i lavoratori Sud-europei soffrono, sia il simbolo reificato della tirannia dei banchieri “usurai” (possibilmente ebrei e massoni) sui popoli. Un liberale, al contrario, sa che il problema non è il capitale, né è costituito dalle banche. E all’ottimistica visione del futuro che ha Draghi, dovrebbe rispondere: dipende. Dipende dalle scelte politiche che verranno compiute nei prossimi mesi. Perché il problema è politico, prima ancora che economico.

La Grecia è tuttora il Paese meno libero d’Europa. L’Index of Economic Freedom della Heritage Foundation lo colloca in fondo alla classifica del Vecchio Continente e nella fascia bassa (Paesi prevalentemente repressi) del mondo. Nella graduatoria generale si colloca al 117° posto (su un totale di 177), al di sotto della maggioranza delle nazioni in via di sviluppo e di un buon numero di Stati post-comunisti. Il settore pubblico è tuttora dominante nell’economia greca. Il mercato del lavoro è più blindato che in Italia. Un sistema del genere, alla lunga, è insostenibile. La Grecia, per cercare di mantenerlo in piedi, si è indebitata oltre ogni limite accettabile: oggi il suo debito pubblico è pari al 152,6% del Pil. Per riuscire a pagare ancora pensioni e salari pubblici, Atene deve ricorrere ai prestiti internazionali. La troika, costituita da Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, ha concesso alla Grecia 240 miliardi di euro per evitare la bancarotta dello Stato greco. Non si tratta di elemosina, ma di prestiti vincolati a riforme strutturali. È solo a causa di questa pressione che il governo Papandreou (socialista) prima, Papademos (tecnico) poi e Samaras (conservatore) oggi, sono corsi ai ripari con una politica di “austerity”. In cosa consiste? Sostanzialmente in tre mosse: aumentare le tasse, dismettere beni immobili e ridurre stipendi e pensioni. In modo da permettere allo Stato di diminuire le sue spese e aumentare le sue entrate.

Il personale della metropolitana è in sciopero perché è l’ultimo (in ordine di tempo) ad essere rimasto vittima dei tagli: i loro salari sono stati ridotti del 25%. La paralisi del trasporto pubblico ha creato il caos ad Atene. E il governo Samaras ha deciso, ieri all’alba, di intervenire con le maniere forti, mandando la polizia a sciogliere i picchetti dei trasportatori. Il tutto avviene in uno scenario di destabilizzazione politica inquietante. Il partito neonazista Alba Dorata è oggi dato al 10% dei consensi. Fino all’anno scorso era limitato ad un simbolico 1%. Cresce (e diventa più violenta) anche la sinistra estrema. Non solo quella rappresentata in parlamento dal Partito Comunista (Kke) e dalla sinistra alter-mondista (Syriza), ma anche quella extra-parlamentare anarchica. Sono infatti gli anarchici che hanno rivendicato l’ultimo attentato dinamitardo al centro commerciale The Mall, di Atene, che ha ferito due poliziotti. E sono sempre loro dietro ad una serie di attentati, avvenuti negli ultimi due anni, che hanno colpito funzionari, poliziotti e anche giornalisti accusati di essere troppo filo-governativi. Questa forte destabilizzazione politica non fa bene alla Grecia, la cui economia si basa soprattutto sul turismo e sui servizi. I numerosi scioperi dei trasporti, gli scontri di piazza, le minacce degli estremisti, stanno completando l’opera di auto-distruzione di un Paese. Le aziende chiudono una dopo l’altra e la disoccupazione tocca il livello record del 26%. 

Questo vuol dire che l’austerity greca non funziona? No, vuol dire, semplicemente, che non è stata messa in atto. Un conto è tagliare la spesa e aumentare le tasse, tutt’altro è privatizzare e liberalizzare. Samaras (e i due governi che lo hanno preceduto) ha scelto la prima via, per salvare lo Stato a spese dei cittadini. La spesa pubblica, nonostante i tagli, è tuttora al di sopra del 50% del Pil. La tassazione, in compenso, è arrivata ad aliquote (nominali) del 46% sui redditi. E se aggiungiamo le imposte indirette, vediamo che (come in Italia), i greci pagano più della metà di quel (poco) che guadagnano. L’altra via, quella delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni è stata percorsa solo in minima parte. Come dimostra, d’altronde, il 117° posto occupato dalla Grecia nella classifica della libertà economiche. I governi ellenici, vuoi per cultura, vuoi per interessi consolidati da decenni, non riescono a vedere modelli alternativi.

La situazione della Spagna è solo apparentemente meno drammatica di quella della Grecia. Ma, sotto molti aspetti, è analoga. Ha la stessa disoccupazione (26% a livello nazionale, 55% di disoccupazione giovanile) e gli stessi livelli di recessione (il Pil si è contratto dell’1,3% nel 2012). La causa è solo leggermente diversa. Non è la spesa pubblica ad essere andata fuori controllo, ma il mercato immobiliare. Alimentato, però, da una politica (pubblica) di agevolazione dei mutui e dei crediti ai costruttori. Quando è scoppiata la bolla del mercato immobiliare, le banche sono entrate in crisi di conseguenza. Lo Stato si è indebitato, a sua volta, per cercare di salvare il suo sistema creditizio. Oggi la Spagna è un Paese in bilico. Il governo Rajoy (conservatore) è ricorso ai tagli alla spesa pubblica per cercare di riequilibrare i conti e ha provocato una nuova ondata di indignazione. Quel 55% di giovani che non trovano un posto di lavoro sta diventando una “massa di manovra” per l’estremismo. E la frammentazione di un Paese multi-nazionale accelera: questa settimana il parlamento della Catalogna (la regione relativamente più benestante e meglio amministrata) ha votato una dichiarazione di autodeterminazione. I Paesi Baschi non vedono l’ora di andarsene. E Madrid ricorre a minacce dell’uso della forza non troppo velate. Anche qui: lo Stato spagnolo non vuol cambiare, cerca di salvarsi facendo pagare il conto ai suoi cittadini. E la conseguenza è l’estremizzazione della politica. Detto questo, la ripresa di cui parla Draghi è e resta possibile. Se l’eurozona non scoppia prima.


di Stefano Magni