In Italia si discute molto – e con molteplici ragioni – della politica economica e della politica estera dell’amministrazione Trump, alle quali gran parte della destra europea sembra plaudire, pur con maggiore o minore convinzione a seconda degli orientamenti di partito o di governo delle singole nazioni, ma si parla poco, quasi niente, della politica sanitaria avviata dal Segretario di Stato Robert Francis Kennedy Jr., che nel panorama medico sta producendo sconvolgimenti oggettivamente più positivi di quelli causati dal nuovo corso economico e geopolitico trumpiano. Effetti a largo raggio e di lungo periodo, e forse proprio perciò oggetto di pesantissimi attacchi da molte parti: dai colossi dell’industria farmaceutica (le cosiddette Big Pharma) a certi settori delle istituzioni sanitarie, dalla politica della sfrangiata sinistra non solo americana ai media nostalgici della volontà di controllo scatenatasi con le restrittive misure sociosanitarie adottate, all’epoca della pandemia da SARS-CoV-2, anche da Stati a guida tendenzialmente liberale.
Tra le decisioni di RFK Jr., che mirano a un’efficacia individuale autentica e non semplicemente ideologica della politica sanitaria nazionale, spiccano il taglio drastico nelle sovvenzioni statali (cioè a livello federale) alla ricerca sui vaccini mRNA; lo stop all’obbligo di vaccinazione antiepatite ai neonati e quindi libera scelta da parte dei genitori (vaccinazione imposta solo per i neonati le cui madri risultino positive e raccomandata nei casi in cui la madre non sia stata testata); una riflessione ad alto livello scientifico sulla funzione dei vaccini e, soprattutto, un approfondimento sul ruolo della sanità come igiene pubblica e sul senso della salute individuale e collettiva.
Se la dottrina MAGA, al netto delle obiezioni che possiamo, giustamente, opporle, ha come obiettivo il rafforzamento della nazione e quindi un esito unicamente interno, la teoria MAHA (Make America Health Again) ha anche un possibile esito esterno, perché se la prima non è esportabile (se non nel senso di un generico richiamo all’interesse nazionale), la seconda invece è applicabile, fatte salve le differenti specificità delle singole nazioni, a tutti gli Stati del mondo occidentale.
Il team di specialisti e consulenti scelti da RFK Jr. è di altissimo livello. Ne menziono uno soltanto ma di grande significato anche simbolico: Robert Malone, inventore dei vaccini mRNA, nominato vicepresidente dell’Advisory Committee on Immunization Practices, nucleo operativo del Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Malone osserva che dopo l’eliminazione dell’obbligo vaccinale contro l’epatite B ai neonati, negli Stati Uniti si sono levate «urla di rabbia e indignazione da parte sia dei fanatici dell’industria sia delle associazioni mediche […], mentre praticamente tutto il resto dell’Occidente industrializzato, avendo da tempo respinto la vaccinazione universale contro il virus dell'epatite B alla nascita, si è chiesto il motivo di tutto questo clamore». Il motivo è che la nuova politica sanitaria mette in discussione i miliardi di dollari che circolano intorno a quello che Malone chiama «il complesso industriale accademico-biofarmaceutico dei vaccini». RFK Jr. sta dunque toccando punti nevralgici del sistema sanitario o, come dice Malone, «vacche sacre che sono state munte ogni anno per decenni, e altre più recenti vacche da mungere basate su piattaforme mRNA enormemente redditizie». Ora, dato che RFK Jr. non è anticapitalista né anti-mercato ma anzi liberale e anti-monopolista, è evidente che il suo obiettivo non è colpire indiscriminatamente le aziende farmaceutiche e il loro indotto, bensì fornire una maggiore tutela della salute dei cittadini, prevenire davvero e curare al meglio.
Né RFK Jr. né, tantomeno, Malone vogliono contrapporsi alla scienza, anzi, vogliono salvare la medicina dalla burocratizzazione tecnocratica e riportarla alla sua antica dignità. Certo, i risultati della tecnoscienza applicata alla medicina vanno preservati, valorizzati e incentivati, ma non lasciando la guida alla tecnica, bensì alla politica intesa – forse idealmente, ma è l’unico modo per definirla in senso autentico – come quel nodo in cui le decisioni si intrecciano con la responsabilità, al di là del mero pragmatismo. Si spiega così perché la scossa terapeutica impressa da RFK Jr., che rappresenta anche un contraccolpo alle assurde restrizioni della pandemia e sta tentando di trasformare alla radice l’establishment medico e più in generale l’assetto sanitario americano, riceva aspre e trasversali critiche.
Ma in Italia – grazie a una guida politica che nelle questioni sanitarie ha posto al centro la libertà individuale e il rifiuto del totalitarismo scientista (lo scientismo è la degenerazione dogmatica e burocratica della scienza autentica) – siamo in grado di apprezzare sforzi audaci come quelli in atto negli Stati Uniti, perché riguardo al rapporto fra medicina e salute stiamo sviluppando una maggiore consapevolezza della libertà di scelta e della necessità di allargare la visuale verso dimensioni innovative che lo scientismo respinge invece come se fossero velenose.
Da qualche settimana, come ogni inverno, i santoni dell’infettivologia ci bombardano di incitamenti a vaccinarci, di ammonimenti se non lo facciamo e di previsioni catastrofiche sulle prossime ondate epidemiche, vere o immaginarie che siano. I passati governi – con l’apice della legge Lorenzin del 2017 – avevano fatto da grancassa istituzionale alle compulsive intimazioni degli epidemiologi, ma con il governo Meloni qualcosa di fondamentale è cambiato, qualcosa che investe il nucleo stesso della questione: nella tutela della salute, la libertà è intangibile, e ciò che la conculca va affrontato e neutralizzato. Già con l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Covid, Giorgia Meloni aveva confermato il suo – personale e politico – impegno a favore della libertà di cura, di quella libertà sanitaria personale che è indispensabile anche per il miglioramento della salute pubblica. E questo impegno genera effetti virtuosi che si ripercuotono positivamente nel discorso politico e nella percezione dell’opinione pubblica.
In questo senso, è interessante notare come l’istituzione sanitaria nazionale e alcune di quelle regionali abbiano mutato prospettiva e linguaggio rispetto a qualche anno fa (altre Regioni invece sono stolidamente ancorate alla visione pandemiologica con la quale ci hanno inoculato i sieri fasulli e nocivi). Troviamo un esempio di questo cambiamento in un recente documento della Regione Lombardia, nel quale l’assessore all’istruzione, formazione e lavoro Simona Tironi ha sottolineato la crescente importanza delle terapie bio-naturali per un più esteso e più consapevole approccio alla salute individuale e collettiva, aprendo così una finestra su un territorio, quello appunto delle terapie naturali e della biomedicina, che è stato – e viene tutt’ora – ostracizzato non solo dall’apparato burocratico della scienza medica ma anche da una parte delle istituzioni politiche. Le poche righe di presentazione del documento contengono un lodevole segnale in una direzione complementare (non opposizionale, ma appunto aggiuntiva) al mainstream medico. Al centro delle considerazioni dell’Assessore è il concetto di benessere come «buona salute fisica, psichica e mentale», che costituisce il perno di «molte discipline e correnti di pensiero filosofico (occidentali e orientali) con recenti conferme in campo medico-scientifico», con l’obiettivo di «stimolare le risorse vitali dell’individuo attraverso metodi ed elementi naturali la cui efficacia sia stata verificata». L’assessore Tironi ritiene che «le discipline bio-naturali, che hanno mostrato la loro capacità di sostegno alla Persona anche durante la pandemia, possano dare un significativo contributo al miglioramento della qualità della vita individuale, e di conseguenza collettiva». Perciò, la Regione Lombardia non solo vuole far conoscere la medicina bionaturale a un numero sempre più ampio di cittadini, ma si fa anche promotrice di un processo di regolamentazione legislativa nazionale.
Che dire? Un’iniziativa positiva da ogni punto di vista, che nel rispetto della scienza medica onesta si preoccupa della salute nel senso completo del termine, esibendo una lodevole apertura culturale e fornendo un solido punto d’appoggio amministrativo alle persone che vogliano esercitare la libertà di cura. Eppure sembra che per i talebani della scienza (ossimoro legittimo perché questi fanatici integralisti producono danno anche alla scienza stessa), le posizioni dell’assessore Tironi siano eresia se non addirittura blasfemia.
Il punto di svolta implicito nelle tesi di Regione Lombardia è stato infatti ben colto dagli occhiuti sostenitori dell’ortodossia scientistica: «risorse vitali dell’individuo», si legge in un recente articolo del Foglio, «è un’espressione che non ha cittadinanza in alcun contesto istituzionale, né sanitario né formativo né giuridico». Qui supponenza e falsità si concatenano. Non è vero che l’espressione risorse vitali sia estranea ai contesti istituzionali, forse sarà aliena al vocabolario di una scienza dogmatica e sclerotizzata, la quale però non è un’istituzione: confondere il piano scientifico con quello istituzionale non è solo una pessima sgrammaticatura culturale ma significa anche, letteralmente, confondere le idee e favorire l’usurpazione da parte della scienza di un ambito – quello appunto delle istituzioni – che non dev’essere invaso, perché altrimenti si finirebbe in un totalitarismo scientistico che nemmeno la scienza stessa, certo quella vera, vuole realizzare perché è contrario al concetto originario di scienza. E soprattutto la locuzione «risorse vitali» non è estranea al – ben più ampio e profondo rispetto a quello tecnico specialistico – lessico filosofico e culturale della tradizione europea.
Qui sta la soluzione del problema: ricondurre la tecnoscienza ai suoi fondamenti, che non consistono nelle procedure o nei protocolli, né tantomeno negli algoritmi, bensì nei soggetti e, appunto, nelle loro «risorse vitali». Non receda, dunque, assessore Tironi; non si lasci terrorizzare e nemmeno intimidire da coloro che – tanti, purtroppo, e alcuni sparsi anche nel campo del centrodestra – si leveranno contro il suo tentativo di rendere più umana la medicina.
Questo circoscritto episodio ha un enorme rilievo civile ed è utile al centrodestra, sia politico sia culturale, non solo perché ha precisi punti di contatto con il progetto di trasformazione medico-scientifica avviato dall’Amministrazione Trump, ma anche perché segnala, da un lato, l’esigenza di dare senso alla scienza che si sta sempre più disumanizzando, e dall’altro l’importanza di allargare lo sguardo al di là della barriera che i pasdaran dello scientismo hanno eretto intorno alla medicina, e al tempo stesso perché ci ricorda la necessità di tenerci ben saldi alle nostre radici, a quella tradizione di cura dell’umano nella sua libertà e singolarità da cui, oltretutto, è scaturita la scienza stessa.
Aggiornato il 15 dicembre 2025 alle ore 10:10
