Giornalisti stampa e i media sono diventati più che politicizzati. Non trionfò, a un certo punto, il vizio di dichiararsi indipendenti? Ah, ma quello era il vessillo dei nuovi partiti, Lega e Movimento 5 stelle. Oggi tutti si dicono indipendenti più dell’Ucraina ma spesso restano servili come un oligarca di Vladimir Putin, così che hanno un padrone pur dichiarandosi contro i padroni. Di conseguenza – forse – si trova in ogni articolo un incitamento all’odio persino nei numeri di pagina. Il settimanale di la Repubblica, Il Venerdì, è un florilegio di odio partitico-politico che sale dalle rubriche, che permane nei consigli del medico, che assale nelle parole – spiritate più che ispirate – di nuovi Rasputin d’accatto. Anche su La Verità o altrove vedo lo stesso vizio. A volte, persino sul giornale dei vescovi, quelli che predicano l’amore evangelico.
Poi ci sorprendiamo nel trovare un culto della violenza politica persino tra giovani che a 18 anni non si ingegnano a comprare un giornale o seguire un telegiornale. Decenni fa i liceali compravano Le Monde oppure – più spesso – Il Corriere della Sera o un foglio della sinistra giovanilista di quegli anni. Sul Corriere scrivevano Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Dino Buzzati e altre intelligenze naturali, mentre adesso vi sono ovunque troppi ciancicafagioli e sputabronze. Il dramma è che ciò che si scrive e dice poi trasuda nelle strade e sui social, e arriva indirettamente anche a chi non legge o ascolta i fresconi da Bagni Tirreno che pontificano sulla tastiera peggio della papessa Giovanna. Resta quindi il detto virgiliano quisque suos patimur manes (“ognuno di noi deve sopportare i propri demoni ancestrali”), come ricorda il nipote di Rameau nell’omonimo pamphlet di Denis Diderot. Ovvero, quando sul Corriere leggevi un articolo di Eugenio Montale, sortivi lieto, quando su Il Fatto Quotidiano leggi un articolo di Marco Travaglio, sortisci oscuro.
L’ipercomunicazione replicata crea un entanglement quantistico, come quello tra due fotoni messi in contatto nel corso di un esperimento, che resteranno comunque collegati, anche a distanza di tempo e di spazio. In un modo simile l’informazione, anche indiretta, entra in correlazione con un insieme di persone, formando un canale invisibile tra centri di comunicazione e popolazione. Se si comunica odio, si avrà un ritorno anche maggiore, e i giornalisti – avendo così ottenuto audience – rinforzeranno quel modo di descrivere i fatti. Si andrà verso un crescendo mozartiano.
Questa realtà mi riporta all’edizione Garzanti del 1973 di due capolavori di Denis Diderot, che include sia Il Nipote di Rameau sia Jacques il fatalista e il suo padrone. Il tema dei due testi è l’educazione nel primo e il rapporto servo-padrone nel secondo. Il nipote del musicista Rameau, terrorizzato dall’ingombrante onnipresenza dello zio defunto, ragiona sull’educazione del figlio, temendo che l’educazione antiautoritaria da lui impartitagli lo possa portare a commettere un patricidio. Io vorrei ragionare piuttosto sullo slogan “Educare il popolo!”, caro alle culture dittatoriali comuniste e nazifasciste. Perché oggi il problema, nel mondo, è ricominciare a educare i nostri figli, smettendo di educare il popolo, che è già fottuto dalla stampa, dai partiti, da insegnanti sostituti di mamma e papà che mica potrebbero (ci siamo quasi) insegnare persino come ci si pulisce a 9 anni. Oggi è persino peggio rispetto al Settecento: il sistema culturale insegna odio e negazione dell’altro politico, razziale, sessuale, eccetera. Di conseguenza, i nuovi salvatori del mondo vanno in barca a vela fino a Odessa per dire agli abitanti cosa dovrebbero fare. La supponenza e l’indignazione ingiustificata rendono le persone schizofreniche. Ebbene, il nipote di Rameau è diventato “la scomoda e modesta appendice di uno zio geniale, costretto dalla mancanza di genio e denaro a farsi buffone di ricchi protettori”, scriveva Andrea Calzolari nell’introduzione ai due testi di Diderot, aggiungendo: “Avere dei princìpi è per Rameau un lusso che può permettersi solo chi ha la pancia piena”, e lo stesso Diderot precisa ancora meglio: “Per molto tempo vi è stato a corte un buffone del re, mai c’è stato un saggio filosofo del re. Io sono il buffone di Bertin e di molti altri”.
Stiamo tutti diventando dei nipoti di Rameau? Come potremmo negarlo, se siamo passati da Pasolini ad Alessandro Barbero? Stiamo diventando una macchina desiderante che ritiene come missione precipua della vita il mangiare bene, bere meglio e “andare comodamente, liberamente, gradevolmente, copiosamente al gabinetto tutte le sere”, come scrisse Diderot nel 1762 (ma il testo fu pubblicato solo nel 1823, dopo una traduzione in tedesco del grande Johann Wolfgang von Goethe. E che? Non è forse così che vivono gli overturisti della vita banalizzata, oggi? Oggi (quasi) tutti gli sragionalisti: “Si vanno, sentendosi laudare, benignamente di vanagloria vestuti, e par che siano una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare (Non solo gli sragionalisti). Diderot – come ho potuto non rileggerlo in questi anni? – precisa meglio come siamo diventati e qual è il mondo attuale (non come lo descrive Limes, Mon Dieu, pardonnez-moi pour ma méchanceté, et pardonnez Limes aussi, pour sa bienveillance!).
Dice il nipote di Rameau: “Da un polo all’altro non vedo che schiavi e tiranni”. Ebbene, oggi purtroppo ancora molti sono i tiranni. E – come Diderot – abbiamo anche di più da temere il dispotismo illuminato e intelligente, che è peggiore di quello crudele, dato che abitua il popolo a essere pronto a delegare al potere ogni sua cosa e dignità, in cambio di una comoda schiavitù da zio Tom. Jacques il fatalista dirà: “Padron mio… il male consegue al bene e il bene consegue al male. Camminiamo nella notte al di sotto di ciò che è scritto lassù”.
Concludo ripensando a una manifestazione che si è appena svolta. Si contestava la decisione di un sindaco, dovuta alla matematica e non a opportunità politiche, le stesse che avevano portato i precedenti sindaci-di-partito (metaforizzo) a utilizzare ben dieci palazzi comunali quando se ne poteva ristrutturare uno soltanto, che avrebbe provveduto alla bisogna. Ebbene, i partiti hanno eccitato il popolo contro il sindaco, che non è despota ma è (un poco, siamo umani) illuminato dalla matematica. I cittadini si sono ingegnati a finire su tutti i giornali locali e i social. La tensione ideale popolare è salita fino al cielo. Hanno manifestato la loro esecrazione e la loro volontà di mantenere un costo inutile, che per giunta inficia spese più necessarie (salute, scuole, eccetera). Non so come andrà a finire. Gli sragionalisti amplificano l’errore e il delirio, e silenziano cose giuste e provviste di senso. La gente agita braccia digitali, inveisce su tasti di plastica, sbaglia, credendo di fare la cosa giusta.
Così ciechi guidano altri ciechi e presto anche i sordi suoneranno trombe per deliziare altri sordi. Seduto su un paracarro, alla Paolo Conte, guardo il Giro d’Italia che si arrampica sul monte. Tra i ciclisti c’è anche Gino Bartali, ma i più sono lenti e stanchi come il sasso su cui sono seduto. Eppure saranno di nuovo loro, innocenti e immobili come paracarri, a salire sul palco per essere premiati dal bacio di una miss e dal denaro degli sponsor.
Aggiornato il 25 novembre 2025 alle ore 09:57
