Non manca molto e la lunga tornata delle Regionali si chiuderà. Soltanto allora si potranno fare valutazioni un po’ più serie sullo stato dell’arte nei rapporti di forza tra coalizioni e, all’interno di queste, tra i partiti in campo. Soprattutto, si capirà se il potere ramificato della sinistra nella gestione dei territori sarà stato scalfito dall’irruzione sulla scena nazionale di Giorgia Meloni, un leader politico di spessore obiettivamente superiore alla media della classe dirigente del Paese. Ricapitolando, delle sei regioni chiamate al voto in questo autunno (escludiamo dal conteggio la Valle d’Aosta che fa storia a sé), al momento due sono andate al centrodestra (Calabria, Marche) e una al centrosinistra (Toscana). Col voto di domenica 23 e lunedì 24 prossimi i bookmaker danno una regione al centrodestra (Veneto) e due al centrosinistra (Campania, Puglia). È probabile che non sbaglino, la fotografia dei rapporti di forza tra coalizioni sembra effettivamente cristallizzata agli esiti delle precedenti sfide regionali.
Vuol dire che i cittadini premiano sempre chi ha governato bene? No, questa è una leggenda metropolitana alla quale solo gli ingenui o chi è in malafede può dare credito. Ciò che il voto tende a confermare, il più delle volte, è un sistema di potere che funziona nel favorire le centrali attive dell’aggregazione clientelare del consenso. Nelle regioni, in particolare del Sud, non si vota per un’idea, ancor meno per un ideale; non è richiesta condivisione ideologica o identitaria ma fedeltà incondizionata al personaggio locale – il capobastone – che garantisce protezione e favori, piccoli o grandi che siano, ai suoi elettori. Che sono suoi e non del partito a cui temporaneamente – e per ragione di convenienza – il capobastone ha aderito. Ciò che regola i rapporti tra il candidato (che ha i voti) e il partito che lo accoglie sotto il suo simbolo non è il fattore della partecipazione convinta a un progetto che è primariamente culturale oltre che programmatico.
Più propriamente, vige la disciplina del franchising: il capo nazionale del partito concede al capobastone l’utilizzo del simbolo e con esso la possibilità di candidarsi e quindi di essere eletto. In cambio, il capobastone acconsente a che il leader nazionale spenda sul mercato politico propagandistico il risultato ottenuto localmente come frutto della bontà della sua proposta politica. Un grande teatrino dei burattini! Un esempio, per capirci. Alle regionali in Campania nel 2020 il partito di Matteo Renzi, in coalizione nel centrosinistra, conquista il 7,38 per cento. Un’enormità per una formazione che a livello nazionale registra consensi da prefisso telefonico. Perché mai la Campania andrebbe in controtendenza rispetto al gradimento manifestato per il senatore di Scandicci? Merito suo, di Renzi? No di certo. Merito di quei vecchi arnesi della politica clientelare ancora detentori di pacchetti di voti a cui, astutamente, il “rottamatore” ha dato una casa e un simbolo grazie a cui correre alle elezioni.
Renzi non è l’unico. A modo suo anche Vincenzo De Luca è un capobastone del quale il Partito democratico non può fare a meno. Il voto delle Europee dello scorso anno lo ha ampiamente dimostrato. Sarebbe molto istruttivo andarsi a rivedere le composizioni delle coalizioni, in particolare il centrosinistra. Si scoprirebbe il ripetersi di un fenomeno che ha il suo apice nelle sfide per le regionali. Lì il voto si spalma tra una serie di liste locali ipocritamente definite “espressioni del territorio”, dove si annida il peggio della vecchia politica. Tuttavia, atteso che, come diceva Totò, è la somma che fa il totale, le tante preferenze distribuite tra le liste minori servono a far vincere il candidato presidente e, ovviamente, il capobastone che si è posto alla testa della lista locale al solo scopo di essere eletto lui consigliere. E la vittoria del candidato governatore? Per il capobastone costituisce un risultato importante ma non decisivo, almeno non quanto il fatto di essere presente lui in prima persona se non nella stanza dei bottoni nell’anticamera dove opera il personale di segreteria del governatore di regione e dove è custodita l’agenda telefonica con i numeri di tutti coloro che sono alla testa della macchina della Pubblica Amministrazione e che possono risolvere gli innumerevoli impicci bagatellari che il capobastone pone per conto e nell’interesse esclusivo, privato, dei suoi elettori.
Veniamo all’oggi. Se in Puglia e Campania il centrosinistra tornerà ad affermarsi accadrà non perché vi sia una Elly Schlein che ha conquistato la maggioranza dei votanti; l’ha affascinata, sedotta, ipnotizzata fino a spingerla a vergare sulla scheda la qualunque, anche il nome più improbabile solo perché uscito dalle sue labbra. Accadrà perché la casta dei capibastone si sta muovendo alla grande per vincere. Ma c’è un ma. Se in Puglia il centrosinistra con Antonio Decaro non ha alcun problema a passare, in Campania la vicenda è decisamente più complicata perché, se è vero che nella logica clientelare “l’affezionato” vota la qualunque se gli viene chiesto dal capobastone, è pur vero che vi sono nomi che fanno fatica a essere digeriti anche dagli stomaci più collaudati. E il nome indigeribile in Campania è quello di Roberto Fico. L’ex grillino è l’archetipo del “fighetto” posillipino, di buona famiglia e di discreti agi economici per consentirsi una vita senza stress e con molte opportunità che gli cadono tra le braccia, da cogliere senza alcuno sforzo.
D’altro canto, solo chi non ha grandi pensieri per la testa e tanto tempo da spendere può trovarsi al posto giusto, nel momento giusto. E lui, il “posillipino”, il rivoluzionario di bocca buona – colui che se avesse un cane lo chiamerebbe “libero…qualche volta” – con all’attivo curricolare nulla se non l’organizzazione di qualche meetup grillino ai tempi eroici del movimentismo pentastellato e la presidenza della Camera dei deputati nella precedente legislatura, si candida al governo della Regione Campania portato sugli scudi da tutti i capibastone del centrosinistra che in lui non credono ma che, in compenso, confidano nel potere taumaturgico che la poltrona presidenziale di una regione come la Campania esercita anche sul più insulso politicante. Tuttavia, il rischio di una reazione negativa dell’elettorato al personaggio è concreto e su questo fa leva il centrodestra. Non a caso i giornali d’area della destra hanno montato un can-can mediatico spingendo un’inchiesta giornalistica mirata a screditare il moralismo di facciata dell’ex grillino Fico.
Roba di una sua barca ormeggiata (forse) presso un attracco abusivo e lui che non risponde per non fornire argomenti alla polemica sulla sua persona. Perché la situazione sarebbe pericolosa per Fico e la sua vittoria in bilico? Perché in Campania vige la regola del voto disgiunto per il candidato presidente. Che significa? Che l’elettore può esprimere un voto per una lista presente in una coalizione e vergare il nome del candidato presidente della coalizione avversa. Lo scenario peggiore per Elly Schlein, Giuseppe Conte e compagni. I capibastone presenti nelle liste minori non sono irreggimentabili, pensano solo a sé stessi. Qual è il rischio? In situazioni in cui un loro elettore potrebbe dire: “a te il voto lo do, ma a Roberto Fico te lo scordi”, il capobastone, per il quale la regola aurea è: “Primum vivere e basta così”, gli concede libertà di coscienza: vota chi ti pare come presidente, l’importante che voti me e la mia lista.
A cosa potremmo assistere la sera di lunedì 24 novembre, quando le schede della Campania verranno scrutinate? Che un certo numero di preferenze risulteranno in capo alle liste minori del centrosinistra e nel contempo gli stessi numeri non verranno assegnati al candidato presidente Fico ma al suo sfidante, Edmondo Cirielli. É ciò che spera accada il centrodestra: vincere la presidenza anche senza avere la maggioranza nel nuovo Consiglio regionale. Perché questo aspetto è di dettaglio. Insediato il nuovo governatore, non sarà un problema comporre una maggioranza “post elettorale” in Consiglio regionale “ragionando” con i capibastone eletti sotto le bandiere del centrosinistra. In un tempo storico dove “fluido” è bello cosa volete che sia un passaggio “sofferto” (ma solo per pochi minuti) da una sponda all’altra del campo di gioco? Ecco servita quelli che i bravi chiamerebbero la “variabile Campania” sulle previsioni del voto. Del resto, non è forse vero che l’Italia di Francesco Guicciardini – che non è mai scomparsa dai radar della storia – resti pur sempre il luogo d’elezione dell’antica massima che suona pressappoco così: “Francia o Spagna purché se magna”?
Aggiornato il 12 novembre 2025 alle ore 09:41
