Alleluia! Sull’elettrico l’Europa ci ripensa

Quando sembra che tutto stia per crollare accade qualcosa – magari d’improvviso, d’inaspettato – che raddrizza la barca sulla quale siamo stipati tutti noi contemporanei, come sardine in un barattolo di vetro. Evviva! Anche oggi non si affonda, non si va giù, si continua a galleggiare. È così che si sopravvive nella vecchia Europa la quale, convinta di essere grande più di tutti e resiliente (che schifezza di parola!), si è drammaticamente scoperta vaso di biscuit. Fragile, come una rosa autunnale; autolesionista, come un Tafazzi intento a darsi martellate sugli attributi; isterica, come una almodovariana donna sull’orlo di una crisi di nervi; piena di sé, come un androgino ossessionato dall’autosufficienza in amore.

Questa Europa di saccenti leader ha creduto a lungo di cambiare il mondo, proprio nel tempo nel quale il mondo stava cambiando lei. Questa Europa, delle grandi utopie che, nei secoli, hanno condotto le sue genti a vivere disastri devastanti, sta per finire nel tubo di scarico della storia, assieme ai detriti del Novecento non ancora metabolizzati. Questa Europa, che in nome della salvezzagreen” ci ha precipitato nel deserto della deindustrializzazione, sta per gettare la spugna sulla follia della transizione ambientale. La signora Ursula von der Leyen in persona ha detto che sì, ai fini del raggiungimento degli obiettivi climatici tesi ad azzerare le emissioni nette entro il 2050, un’occhiata benevola all’inclusione dei biocarburanti nei regolamenti comunitari sulle emissioni di Co2 di auto e furgoni, da rivedere a breve, la si può concedere; che puntare all-in sull’elettrico forse non è stata la genialata del secolo visto che è servito soltanto a saziare la concorrenza ingorda del dragone cinese.

Proprio così! L’ha scritto nella missiva sulla competitività che apre il vertice europeo di domani. Magnifico! La timoniera della Ue, con tutta la sua ciurma, ha aspettato che una parte dell’apparato industriale europeo crollasse sotto i colpi di una legislazione comunitaria a dir poco allucinante per accorgersi di aver imboccato contromano la strada della sostenibilità climatica. Per assecondare le pulsioni ambientaliste del versante sinistro della coalizione che l’ha votata alla presidenza della Commissione, ha atteso che l’automotive europeo finisse in bancarotta dopo che la crociata per mandare in archivio il motore endotermico, eletto a causa di tutti i mali del pianeta, fosse stata vinta dalle anime belle del progressismo occidentale.

Il mantra è diventato l’elettrico. I cinesi, che di allodole se ne intendono e anche di come acchiapparle con facilità, lo hanno capito per tempo e si sono attrezzati per invadere un mercato che gli ha spalancato le porte senza difendersi. Lo ha ammesso la stessa Commissione europea – come riferisce uno studio di Aspen Institute Italia del 7 novembre 2022 – che il passaggio all’auto elettrica avrebbe determinato la perdita di circa 600mila posti di lavoro a livello continentale. Si obietterà: le grandi transizioni dell’umanità hanno pur sempre comportato dei costi in termini di vite umane sacrificabili. Peccato che la gente di queste teorie malthusiane mirate alla selezione della specie umana cominci ad averne le scatole piene, in particolare quando si accorge che altrove le leadership non hanno perso il lume della ragione e certe idiozie non le dicono e tantomeno le riversano nell’azione di governo.

Sono anni che si è provato a spiegare a quelli che campano felici nella bambagia di Bruxelles che l’implementazione della ricerca e della realizzazione di biocarburanti a basso impatto ambientale sarebbe stata il giusto compromesso tra il procedere nel percorso di transizione green, e la necessità di salvare la produzione motoristica dell’endotermico. Ma loro no, hanno puntato dritto sull’elettrico che ha significato più Cina in Europa e, all’orizzonte, un grave atto di discriminazione economica ai danni dei popoli dell’Occidente europeo. Mettere al bando l’intero parco dei veicoli a benzina e a diesel e costringere i cittadini a comprare costosissime auto elettriche prevalentemente costruite in Estremo Oriente, avrebbe determinato una rottura irrimediabile per la tenuta della coesione sociale. Con un ceto medio largamente impoverito dalle crisi susseguitesi nell’ultimo decennio, in quanti possono consentirsi il lusso di un’autovettura elettrica?

I numeri ci consegnano la risposta. Nel 2024 sono state immatricolate in Europa 1.993.102 auto elettriche, per una quota di mercato sul totale della produzione dell’automotive pari al 13,6 per cento. Vendite in calo del 5-6 per cento rispetto al 2023. Non c’è una domanda all’altezza dell’offerta resa disponibile, e di questo le leadership politiche dovrebbero tenere conto per evitare che il tessuto sociale si sfilacci e si consolidi l’inevitabile separazione tra minoranze di inclusi rispetto a una maggioranza di esclusi dall’accesso ai simboli del progresso più spinto. Una diversa motorizzazione delle auto può diventare un fattore di rischio rilevante per la tenuta democratica? Sì, lo può, perché quando salta l’equilibrio all’interno di una comunità, tutti gli scenari diventano possibili, anche i più negativi.

Forse sono serviti i ripetuti scrolloni che l’Europa sta rimediando da qualche anno a questa parte; forse è servita la ruvidezza di Donald Trump nel trattare con i cugini dell’altra sponda dell’Atlantico; forse ha avuto un ruolo la caparbietà di Benjamin Netanyahu a procedere controvento in barba ai tentennamenti e alle ipocrite timidezze delle stantie democrazie europee; forse ad annichilire il circo Barnum della noblesse occidentale è stata l’indisponente resistenza alla resa opposta da un Vladimir Putin che delude le cancellerie europee per non essere ancora morto, per non essersi consegnato alle cure di un ospedale psichiatrico, per non aver dichiarato in bancarotta l’economia del suo Paese, per non essere crollato sotto il peso delle armi Nato date all’Ucraina; per essere ancora a piede libero nonostante il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale, la più inutile e ipocrita delle istituzioni che la comunità delle nazioni potesse darsi pur di scaricarsi la coscienza dei sensi di colpa originati dalle tante nefandezze compiute nel passato, e nel presente.

È servito che tutto ciò accadesse, che gli europei toccassero con mano il livello di inanità a cui erano precipitati; che le destre cominciassero a vincere dappertutto nel cuore della vecchia Europa scrostando dalla superficie lo strato di quella vernice liberal generosamente fornita dagli Stati Uniti d’America, perché Ursula von der Leyen sterzasse prima di finire nel burrone – e gli europei con lei – in una farneticante chicken run ingaggiata con l’autoreferenzialità del dogma ambientalista, neanche fosse stata il James Dean di Gioventù bruciata. L’auto per anni ha rappresentato uno status simbol: il mondo ti classificava in base ai cavalli del motore esibiti. Non è che oggi sia diverso, un certo mondo continua a valutare il prossimo in kilowatt, ma c’è un’altra parte di mondo, in Europa, che delle emissioni a zero e della decarbonizzazione non sa che farsene se queste comportano l’impossibilità a mettere il piatto in tavola per i propri figli e per sé stessi. Ed è questa parte qui che ha spaventato la signora von der Leyen convincendola a cambiare rotta sulla transizione green.

Non che sia finita, molto altro si dovrà fare per smantellare l’utopia verde e riportare l’intera Unione europea nel regno del possibile, dove ciò che conta sono i bisogni e le istanze della gente in carne e ossa, non le fantasie avventuriste di un’élite di sfigati che si è messa in testa di salvare un mondo che non le ha chiesto di farlo. E che a furia di crisi, di guerre e di sincopi sociali, non sa più come farglielo capire.

Aggiornato il 22 ottobre 2025 alle ore 09:55