Gaza, la sinistra e il crollo degli stereotipi

Per Gaza è fatta. L’aria che tira da quelle parti non reca il lezzo della precarietà, dello stare “come d’autunno sugli alberi le foglie”. La pace stavolta è questione concreta, solida, perché finalmente qualcuno (Donald Trump) ha usato l’ingrediente giusto per preparare la migliore minestra possibile, edibile per palati ontologicamente inconciliabili: il denaro. “The Donald” ha messo insieme un po’ di ricconi dei deserti mediorientali perché quell’ingrata terra da luogo di morte e disperazione si trasformi in una sorgente di ricchezza. Per tutti. Grattacieli, attività commerciali, strade, aeroporti, mare, sole, case, alberghi, resort, yacht, hi-tech: benvenuti alla Gaza Riviera, firmato Donald & friends. Questa è la pax americana, da ottanta anni a questa parte. Dai tempi del Piano Marshall e dell’idea (vincente) che non si dovesse spargere sale sulle rovine del nemico sconfitto. E la sicurezza per Israele, che è tema prioritario? I soldi funzioneranno da strumento di pace. I palestinesi, ancorché musulmani, sono mediterranei. Avendo i mezzi economici, non disdegnerebbero di starsene sdraiati al sole a godersi l’insperata ricchezza e il bel mare. Ecco perché Hamas è disperata. Ha sentito sul proprio corpo il bruciante dolore della sconfitta totale, subita per l’effetto combinato del bastone (israeliano) e della carota (trumpiana).

Prima Benjamin Netanyahu che ha picchiato durissimo fino a decimarli. Ora arriva Trump a porgere la carota ai superstiti. Ma anche una carota può fare male. Si obietterà: i palestinesi non rinnegheranno l’antico odio verso gli ebrei, non accetteranno di pacificarsi col nemico storico. E dove sta scritto che non cambino idea, in particolare ora che ci sono in ballo interessi economici? Quelli bravi sogliono ripetere una locuzione attribuita all’imperatore romano Vespasiano: “Pecunia non olet”, il denaro non ha odore. Sarà, ma noi preferiamo, perché più appropriato al contesto, un detto della saggezza partenopea che recita: “E sord’ fanno venì ‘a vista ‘e cecate” che tradotto per i lettori residenti sopra la linea del Garigliano, suona “I soldi fanno tornare la vista ai ciechi”. Certi miracoli accadono, a maggior ragione in quel lembo di terra che di miracoli ha millenaria memoria.

Si prenda il caso di Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ, l’odierno leader della Siria del dopo Bashar al-Assad. Un tempo si faceva chiamare Abū Muḥammad al-Jawlānī, e come tale era conosciuto per le sue gesta di terrorista tagliagole, fautore del peggiore integralismo islamico. Guadatelo adesso. Modi gentili, raffinati abiti alla occidentale, come riconoscere nell’odierno gentleman da compassati salotti londinesi il feroce assassino di ieri? Anche nel suo caso, i denari americani hanno fatto il miracolo. La dirigenza di Hamas ne è consapevole: l’unica guerra che non potrà mai vincere è quella contro un pezzo di carta, una banconota verde.

Ma se Hamas si arrende non vuol dire che tutto il mondo che gli è ruotato attorno in questi anni debba fare altrettanto. Ci sono i morti caduti impugnando il kalashnikov e ci sono, in Europa e in Italia, gli orfani e le vedove inconsolabili di quei terroristi. Sono quelli che ieri l’altro in strada continuavano a gridare Palestina dal fiume al mare – a proposito, almeno sanno di quale fiume parlano? – mentre ai palestinesi in carne e ossa l’unico fiume che amerebbero vedere scorrere al più presto è quello dei dollari in arrivo per la ricostruzione di Gaza e della loro comunità (una stima della Banca mondiale prevede un ammontare di 53 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza e della Cisgiordania, di cui 30 miliardi per le infrastrutture fisiche e 19 miliardi da destinare alle perdite economiche e sociali, cioè ai palestinesi). E sono quelli che hanno pontificato su tutti i media, fino a sostenere che il governo italiano sia stato complice di un fantomatico genocidio compiuto materialmente dall’esercito israeliano contro gli inermi palestinesi. Per costoro, l’entusiasmo mostrato dai “derelitti” per il piano di pace di Trump è vissuto alla stregua di un tradimento inaccettabile.

Tradimento di uno stereotipo a cui l’armata progressista era sinceramente affezionata: lo stereotipo del palestinese arrabbiato e pezzente. La povertà come stigma dell’oppressione patita per mano di una democrazia israeliana di stampo borghese, capitalista, evoluta alla occidentale, ma sospettata di essere neo coloniale e imperialista nei reconditi intendimenti geostrategici, che la sinistra ha visceralmente detestato. Tuttavia, se per evidenti ragioni storiche, non ha mai potuto dire apertis verbis che il modello della società aperta israeliana le stesse sulle scatole, più comodamente ha potuto nascondere il proprio odio ideologico verso Israele dietro la foglia di fico della questione palestinese e dei diritti conculcati di un popolo sulla propria terra e su un radioso futuro di… povertà.

Già, perché il benessere e la ricchezza degli israeliani non sono caduti dal cielo. Non si è trattata di biblica manna – a proposito, vi siete mai chiesti, dai tempi del catechismo, cosa cavolo fosse questa manna? – ma di sviluppo economico programmato e incardinato su un robusto ed efficiente sistema sociale ispirato ai principi della democrazia liberale. Cosa che non è nelle corde dei palestinesi costruire ed è un veleno per i nostalgici del pauperismo radical-chic. I campioni di questo pensiero ammorbante, i fighetti figli di papà rivoluzionari immaginari, non si arrendono all’idea che la festa sia finita. Addio cortei, occupazioni, bella ciao, Giorgia Meloni a testa in giù e bandiere arcobaleno e della Palestina a garrire insieme al vento secco e rovente del khamsin per il più colossale ossimoro che la storia di genere abbia annoverato tra le sue pur bizzarre, sconclusionate, rocambolesche virate.

Tutto spazzato via dal prorompere sulla scena del detestato elefante Donald. E, come col pifferaio della favola, a seguirlo anche gli amati “straccioni” di Gaza – emuli ma con opposto destino, nell’immaginario progressista, di altri osannati “straccioni” che due secoli orsono in Francia a Valmy cambiarono il corso della storia – per dirla alla Fabrizio De André, come un ragazzo segue un aquilone. Ma gli eroici vessilliferi del “boia chi molla… il pacifismo” non intendono soccombere, come spaventapasseri in un campo di grano, agli stormi di uccellacci che si apprestano a dilaniare la carcassa del cadavere della resistenza palestinese. Va bene così, facciano ciò che credono, continuino nella pretesa di sovvertire la volontà degli italiani a colpi di oscene piazzate. In democrazia tutto è ammesso, anche l’irresistibile comicità pseudo-ideologica della signora Francesca Albanese.

L’unica cosa che non s’ha da fare è paragonare la banda di disperati della sinistra orfana dei suoi stereotipi a quel tal giapponese che ha continuato, nelle Filippine, la sua guerra dei trent’anni contro il nemico, perché nessuno lo aveva informato che era finita nel 1945. Niente paragoni azzardati. La sacra memoria di Hiroo Onoda non può in alcun modo essere accostata a questi imbecilli in malafede che sperano nella prosecuzione a oltranza del conflitto israelo-palestinese per continuare a trarne una loro ragion d’essere. Onoda non è l’archetipo del “rincoglionito” come una certa aneddotica vorrebbe rappresentarlo. Onoda, giovane ufficiale dell’esercito imperiale, nel 1945 di stanza nell’isola filippina di Lubang, aveva ricevuto l’ordine dal suo comandante, il maggiore Yoshimi Tanigushi, di tenere la posizione e di organizzare azioni di guerriglia contro i soldati americani per ostacolarne lo sbarco sull’isola. In assenza di un contrordine, per Onoda sarebbe stato vergognoso non rispettare la consegna ricevuta. Per risolvere la questione che stava determinando un imbarazzante attrito diplomatico tra il governo di Manila e Tokyo, servì che nel 1974 si recasse nelle Filippine, con grande clamore mediatico, il maggiore Tanigushi in persona a impartirgli a nome dell’imperatore l’ordine di revoca della consegna a resistere a oltranza al nemico. A Onoda fu concesso l’onore di consegnare la spada di ufficiale imperiale, in segno di resa, nelle mani del presidente filippino Ferdinando Marcos il quale, ovviamente, gliela restituì.

Esempio di virtù eroica, di assoluta abnegazione di soldato, di fede incrollabile nella patria e nell’imperatore, Onoda, ispiratore della formazione etica di molte generazioni di giovani di destra, non può essere scambiato nel ricordo con la banda di inutili idioti spacca-vetrine e spacca qualcos’altro che infesta le nostre città e il dibattito politico in Italia. Se la sinistra ha perso per strada i suoi “eroipalestinesi, cerchi altrove le causali per inventarsi un’altra ragione di esistere. E dimentichi gli “straccioni” di Gaza perché quelli dei loro gorgheggi pseudo-rivoluzionari non hanno mai saputo che farsene. Figurarsi adesso che arriva zio Paperone.

Aggiornato il 13 ottobre 2025 alle ore 09:56