
Doveva essere l’Ohio è invece sono le Marche. Una regione italiana né grande né piccola, ma che è ugualmente risultata indigesta a Elly Schlein, a Giuseppe Conte e alle loro ambizioni di cominciare da lì, dalle sponde del medio Adriatico, la cavalcata trionfante verso la gloria, verso Palazzo Chigi. I marchigiani, ieri l’altro, hanno detto un secco “no grazie, ripassate tra cinque anni se ci sarete ancora”. Cosicché, le belle speranze progressiste hanno patito un bruciante arresto di marcia quando il candidato del centrodestra, Francesco Acquaroli, è stato riconfermato alla guida della regione mentre lo sfidante di sinistra, il camaleontico Matteo Ricci, è tornato a casa con le pive nel sacco. Una pallonata rimediata in pieno volto dall’ex sindaco di Pesaro. Forse che a colpirlo sia stato uno di quei palloni che Ricci colleziona e di cui fa sfoggio in ogni collegamento televisivo. Peccato che stavolta il “vincente” – tale designato dal mainstream progressista in totale spregio di quella cosa ingombrante e fastidiosa che si chiama volontà popolare – le abbia buscate di brutto.
I numeri non lasciano spazio a dubbi. Acquaroli con 337.679 preferenze raggiunge il 52,43 per cento; Ricci con 286.209 voti si ferma al 44,44 per cento. Un distacco di quasi 8 punti percentuali (7,9) tra i due, che nella contabilità della politica sono un’enormità. Vince la coalizione del centrodestra. Non è un caso che i partiti schierati al fianco del candidato presidente uscente abbiano sommato il 53,77 per cento dei consensi (+1,34 per cento dei voti ottenuti dal candidato presidente) – con una consolidata prevalenza di Fratelli d’Italia (27,41 per cento) rispetto a Lega (7,37 per cento) e Forza Italia (8,60 per cento) che, in questa fase storica, debbono rassegnarsi a occupare il ruolo ancillare di junior partner – mentre l’allegra brigata del “campo largo”, alias centrosinistra, ha messo assieme il 43,55 per cento (lo 0,89 per cento in meno della percentuale ottenuta da Ricci quale candidato presidente).
Come prevedibile, è partita la corsa dei media organici alla sinistra a cercare giustificazioni implausibili alla bastonata elettorale rimediata. Stanno dicendo la qualunque, toccando cime di meschineria di rara altezza. Dicono che il candidato di centrosinistra abbia pagato la scorrettezza della magistratura che ha osato recapitargli un avviso di garanzia proprio nel momento dell’annuncio della decisione di correre per la poltrona di presidente delle Marche. Ci vuole una faccia di bronzo nel sostenere una cosa del genere quando per 30 anni la sinistra non ha fatto altro che lucrare indebito profitto elettorale dalla persecuzione giudiziaria sistemica attuata dalle toghe ai danni dell’allora leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, e dei suoi sodali mediaticamente più esposti. Lo hanno fatto per anni, al punto che nel gergo mediatico è stata coniata una locuzione ad hoc: “la via giudiziaria” per indicare la modalità più gettonata a sinistra nel corso della Seconda Repubblica per accaparrarsi il potere anche in violazione del verdetto elettorale.
Ricci si lamenta del trattamento subito dai giudici e dimentica ciò che hanno combinato i suoi a Giovanni Toti in Liguria. Ma tant’è. Dicono, a sinistra, che si è perso perché l’astensione l’ha fatta da padrona. E quando, in altri contesti, hanno vinto con i medesimi dati impietosi sull’affluenza? Allora l’astensionismo non era un problema? Dicono anche che sia mancato il voto del Movimento 5 stelle perché quegli elettori lì sono così puri e moralmente inscalfibili che, per quanto abbiano provato a turarsi il naso, proprio non ce l’hanno fatta a vergare il nome dell’ex renziano Ricci sulla scheda. Bisogna piantarla con la storia del fantomatico popolo pentastellato che sarebbe sempre in procinto di cambiare le sorti del Paese ma che, per un motivo o per l’altro, non si presenta mai all’appuntamento con le urne. La verità è che il mitico popolo grillino non esiste più. Si è ritrovato per un breve periodo intorno alle parole d’ordine del qualunquismo politico di Beppe Grillo, in un tempo eccezionale di crisi che richiedeva di canalizzare la rabbia popolare entro i binari della dialettica democratica.
Cinque stelle è stata la risposta movimentista/casinista, moralista quanto basta, forcaiola al punto giusto, al Governo Monti, all’Europa matrigna di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, all’austerity, alla finanza speculativa che provava a mettere le mani sulle risorse patrimoniali degli italiani, degli spread a quote stellari. Quel mondo non esiste più. Mario Monti si gode il generoso stipendio di senatore a vita, Angela Merkel è una pensionata e Sarkozy un condannato destinato a farsi un po’ di anni di galera. Ragione per la quale lo striminzito 5,08 per cento, racimolato dal Cinque stelle nelle Marche, è il massimo che la banda di politicanti allo sbaraglio capeggiata dall’ambizioso Giuseppe Conte potesse mettere insieme. Siamo pronti a scommettere che a loro non andrà meglio nei prossimi appuntamenti elettorali. Se prenderanno qualche voto in più al Sud – in Campania, Puglia e Calabria – sarà per l’effetto abbacinante che la promessa di ripristinare in sede regionale il reddito di cittadinanza avrà sul voto della plebe delle grandi città del Mezzogiorno.
Qualche mente geniale si è lasciata scappare di bocca che Ricci abbia perso perché avrebbe dato troppo spazio alla componente moderata e centrista della sua coalizione. In pratica, quel 7,43 per cento portato in dote dalla lista civica “Matteo Ricci presidente” avrebbe fatto più male che bene al candidato. Sempre a sentire questi geni della lampada, un personaggio più connotato a sinistra avrebbe convinto maggiormente la componente dei “massimalisti” a non rimanere alla finestra a causa della presenza in campo di troppo riformismo di stampo socialdemocratico. Hanno anche insinuato che la partita sarebbe stata truccata. Giorgia Meloni sarebbe scesa in campo mettendo sul piatto tutta la popolarità di cui gode e imponendo al suo Governo di adottare un trattamento di favore per le Marche dell’amico Acquaroli – vedi l’allargamento della Zes (Zona economica speciale) alla regione Marche – pur di fornirgli un vantaggio competitivo.
Ma è stata Elly Schlein a metterla sul piano della sfida politica al Governo. Sono stati i compagni a dire che vincere nelle Marche avrebbe segnalato il cambiamento irreversibile della direzione del vento nel Paese. E sulla questione della Zes, che volgare cialtroneria! Connettono quella pur importante concessione alla vicenda elettorale di Acquaroli ma volutamente tacciono del fatto che, in pari data alle Marche, l’Umbria ha ottenuto il medesimo beneficio. E l’Umbria è governata da loro. Una sarabanda di stupidaggini alle quali aggrapparsi come naufraghi abbrancati a un legno marcio pur di negare a sé stessi e all’opinione pubblica il riconoscimento di una verità elementare: Acquaroli ha vinto perché la sua buona amministrazione ha spinto i marchigiani a rinnovargli la fiducia. Se non avesse svolto a dovere il compito affidatogli dagli elettori nel 2020, non sarebbe bastata una Meloni wonder woman a tirarlo fuori dai guai.
Tuttavia, se proprio volessimo individuare una causa derivante dall’azione del Governo per spiegare in parte la vittoria larga del centrodestra ieri l’altro, dobbiamo guardare a un numero. Le Marche esprimono sul territorio una nutrita e operosa classe imprenditoriale. Lì c’è gente che produce e che bada al sodo quando deve prendere decisioni che impattano sui propri interessi. La scelta di un governatore regionale è tra queste. È qui che c’entra il numero, che è quello dello spread. Il venerdì prima del voto lo spread Btp-Bund a 10 anni ha chiuso a 86,510 punti base. Una roba che non si vedeva da decenni. Nel concreto della quotidianità ciò si traduce in minor costo del denaro, maggiore disponibilità del sistema finanziario ad aiutare le imprese, maggiore fluidità nella circolazione della moneta, rafforzamento del potere d’acquisto dei salariati.
Ora, chi avrebbe dovuto preferire quel tal produttore, poco importa se micro, mini, medio o grande: un candidato che ha già dato buona prova di sé o un politicante che si è presentato al comizio finale della campagna elettorale con la bandiera palestinese e che ha promesso, come primo atto da presidente in caso di vittoria, di riconoscere lo Stato di Palestina? La differenza tra il fantastico mondo dell’utopia progressista e la realtà della gente comune che pretende dalla classe di governo risposte chiare e concrete, è tutta qui. Si obietterà: la sinistra però vince in alcune regioni e nelle principali città metropolitane. Vero, ma dove prevale lo fa schierando personale politico che pratica la logica di potere ereditata dalla storica capacità del Partito comunista italiano di penetrare capillarmente i territori. La sinistra vince con i De Luca, i Giani, con il mastodontico sistema cooperativo emiliano-romagnolo, con l’immensa rete degli enti del Terzo settore, i quali gestiscono fiumi di denaro pubblico e innumerevoli occasioni occupazionali, con il controllo stretto degli organismi a regime privatistico collegati agli Enti locali, non certo con i fricchettoni radical-chic che fanno da corona a Elly Schlein e alla sua variopinta corte dei miracoli.
Finché la sinistra sarà guidata da lei alla stregua di un collettivo studentesco – la definizione felicissima è di Claudio Martelli – Giorgia Meloni e il centrodestra rimarranno al timone della nazione, per volontà degli italiani, a lungo. Molto a lungo.
Aggiornato il 01 ottobre 2025 alle ore 09:34