
Nelle sedute delle assemblee deliberative sono previste quattro modalità di voto: favorevole, contrario, astenuto e non-partecipante alla votazione; e una modalità extra-voto che consiste nell’assenza, per la quale si può inviare giustificazione se si desidera contribuire alla formazione del numero legale oppure lasciare ingiustificata proprio nell’intento di far mancare tale numero. In tutte le assemblee dunque, di carattere pubblico o privato, tanto più in quelle istituzionali, l’assenza o la dichiarazione di non partecipazione sono forme regolari e regolamentate. Il diritto di voto è, appunto, un diritto che include anche il suo rovescio: il diritto di non votare. E ciò vale anche per il voto su quesiti referendari. Piaccia o meno, così stanno le cose nel sistema democratico.
Ma al di là dei non votanti per scelta di principio, che non votano mai, a prescindere dal tipo e dal tema di elezione, al di là dunque di quelli che possiamo definire apolidi elettorali, il tema posto in votazione è dirimente affinché un individuo possa esercitare il suo doppio diritto elettorale: se in un consesso viene posto in votazione una questione nella quale non voglio – non importa per quale motivo – che il mio nome venga implicato, dichiaro di non partecipare al voto oppure rimango assente. Questa è una precisa e inalienabile forma della libertà personale che vige nelle liberaldemocrazie, in tutto quel mondo occidentale oggi tanto vituperato anche da parti opposte.
A proposito del referendum dell’8 giugno, i suoi promotori o sostenitori hanno deciso di condannare qualsiasi forma di esercitare la libertà in materia elettorale che non sia quella del voto. E giù critiche, accuse e perfino anatemi contro chiunque osi esprimere la propria libertà, in questo caso non votando. Ora, che questa pesante aggressione verbale sia frutto della disperazione è indubbio, perché il probabile mancato raggiungimento del quorum vanificherebbe infatti il referendum stesso, ma dietro a questa velata persecuzione nei confronti di chi voglia non votare c’è anche una particolare struttura mentale, psicopolitica o psicoideologica, la medesima mentalità con cui nei regimi comunisti erano in vigore (e vigono tutt’oggi) obblighi, non solo scritti e codificati ma anche consuetudinari, riguardanti quanti più possibile aspetti della vita sociale e personale. Controllo ossessivo, regolamentazione asfissiante, processi politici continui, condanne e pene smisurate.
Purtroppo, non c’è niente da fare: decenni di democrazia liberale e di liberalismo non sono bastati ad eliminare quelle tendenze recondite e incistate in profondità nelle menti intorbidite degli immarcescibili comunisti nello spirito e nella prassi, nei progressisti di varia tendenza e ascendenza, quelle pulsioni che sfociano nella pratica della costrizione, dell’imposizione più o meno violenta ma sempre arcigna ed essenzialmente totalitaristica. Non dimentichiamo, solo per fare un esempio recente e per restare nel campo delle società occidentali, ciò che quella mentalità è stata capace di fare in occasione della pandemia, con il parossistico e grottesco uso del controllo e della coartazione, della schedatura e del ricatto, iniettandosi negli individui, violentandone il corpo e la mente, calpestando in modo feroce e sadico la libertà delle persone.
Oggi, le metaforiche ma non indolori bacchettate che politici e giornalisti mai guariti dal virus comunista stanno infliggendo ai cittadini riottosi a obbedire al diktat referendario, sono il risvolto attuale, postmoderno ed eclettico, buonista ed edulcorato, della vecchia arroganza ideologica e dell’antico vizio della punizione – in tutti i suoi gradi: dalla vessazione al carcere, dal gulag all’eliminazione – praticata dal meccanismo totalitario e quindi in modo tragicamente eccellente dalla sua variante comunista in tutte le epoche e a tutte le latitudini. Non vuoi votare? Allora sei un reprobo, e quindi devi essere punito.
Il referendum dell’8 giugno è un’occasione appunto in cui stiamo vedendo all’opera questa psicosi costrittiva, l’ennesima circostanza in cui il teorema ideologico totalitarista trova espressione e quindi trova conferma. Secondo questa assurda logica (mi scuso per l’ossimoro), la definizione costituzionale del voto come «dovere civico», che non va però inteso come obbligazione morale né legislativa, andrebbe interpretata restrittivamente, sottomettendo la libertà insita nel diritto alla forza insita nel dovere, e trasformando il diritto in un obbligo. L’ottusa ragione (ancora un inevitabile ossimoro) dei sinistri non considera che anche il non partecipare al voto è legittimo, tecnicamente e moralmente, quanto il votare. Costoro vorrebbero un regime dove il voto fosse obbligatorio per legge e venisse sanzionato chi non lo espleta, ma quel regime non può trovare spazio fra le nazioni occidentali, nelle quali mal si inserisce anche l’occulta propensione dittatoriale della sinistra italiana.
Giorgia Meloni, da Presidente del Consiglio, ha anticipato che si recherà al seggio ma non ritirerà la scheda: è una dichiarazione di non-partecipazione al voto, implicita ma evidente, e quindi è l’espressione di una scelta legittima e legale, che è politicamente, giuridicamente e moralmente consentita (e da molti anche apprezzata). E se è legittima per un privato cittadino, lo deve essere anche per un rappresentante delle istituzioni, perfino al massimo livello. Oltretutto, la scelta del Presidente Meloni è politica in senso eminente ed esemplare, come appunto un capo di governo deve fare: fornire indicazioni.
Se ritengo che i quesiti referendari siano fuorvianti, inefficaci o addirittura dannosi, perché devo essere costretto ad esprimermi? Perché un gruppo di promotori si arroga il diritto di obbligarmi a votare su ciò che io, personalmente, considero negativo? La risposta fa affiorare quella volontà di costrizione che non è mai scomparsa dall’orizzonte mentale della sinistra.
E all’esercizio della coercizione si affianca quello dell’odio: per imporre e quindi per far rispettare la legge non c’è bisogno di avere in odio qualcosa o qualcuno, anzi, è necessario farlo con la massima serenità d’animo, ma per imporre uno schema ideologico dalle ben note caratteristiche violente come quello che per brevità definisco comunista occorre detestare profondamente ciò che o chi sta dalla parte opposta, insomma, occorre demonizzare l’avversario. Così era e così è ancora. Per questi arruffapopolo il tempo non è mai passato, la storia non è mai esistita. Cambia la bardatura, cambiano le maschere, ma la sostanza è sempre quella: totalitarismo. La volontà che lo anima va imposta sempre, anche con la forza.
E quando questa ideologia intrinsecamente perversa si intreccia con la psicopatologia, come vediamo costantemente in quella finestra sulle miserie della mente umana e in quell’abisso di abiezione che sono i social networks, si produce la odiologia, il discorso (e l’aberrante logica) dell’odio sistematico e brutale, di cui la vittima più recente è Giorgia Meloni e, cosa ancor più bestiale, la sua piccola figlia. Un obbrobrio da voltastomaco. Roba da matti, sì, letteralmente, ma anche roba da fanatici ideologizzati, la punta di un grosso iceberg d’odio politico che con il passare dei decenni non si scioglie nemmeno di una scheggia. Non vai a votare al referendum? Ti reputo un disertore e verrai punito come tale. Sei un avversario politico, insomma, sei di destra o di centrodestra? Allora sei un nemico e devi essere trattato come in tempo di guerra.
Dinanzi a questo degrado politico e morale, c’è bisogno non solo di un paziente lavoro sulle coscienze individuali, ma anche di un’azione, serena ma decisa, delle istituzioni, dello Stato, perché dalla tastiera al trigger il passo può essere breve.
Aggiornato il 05 giugno 2025 alle ore 09:41