
Il dibattito pubblico italiano soffre di un grande male: l’approssimazione. Succede sempre. L’altro ieri, in tempi di Covid, eravamo diventati all’improvviso esperti epidemiologi. Ieri, con lo scoppio della guerra russo-ucraina, ci siamo scoperti raffinati strateghi militari. Oggi, nel giorno in cui Donald Trump ci bastona con l’apposizione di dazi salati sui prodotti importati dagli Stati Uniti d’America, facciamo gli economisti. Sarebbe comodo che la realtà potesse essere decifrata avendo letto quattro righe su un social, donate da improbabili “tuttologi”. La verità è che, alle prese con un’emergenza che va a impattare sulla qualità del nostro vivere quotidiano, dobbiamo fare i conti con il “governo della complessità”. Ne erano perfettamente consapevoli i comunisti dello scorso secolo, che insegnavano il concetto nelle scuole di partito ai dirigenti e ai quadri destinati ad assumere incarichi nelle istituzioni pubbliche. Soprattutto negli enti locali.
Attualmente, anche la squadra di Governo guidata da Giorgia Meloni dovrebbe produrre uno sforzo supplementare e accelerato di apprendimento nella materia ostica del “governo della complessità” che fonda su una semplice, basilare regola: ogni interazione tra gruppi umani – che siano piccole comunità territoriali o rapporti tra Stati sovrani – è complicata da un’infinità di intrecci che, a loro volta, generano opportunità e criticità. Motivo per il quale nessuna decisione, per essere efficace, può essere affrettata, assunta con superficialità. Nessuna analisi può essere condotta con l’uso dell’accetta: niente è tutto completamente bianco o totalmente nero, ma è delle cento sfumature di grigio che si deve tenere conto quando in gioco ci sono l’interesse, il benessere e la sicurezza del gruppo umano che si è chiamati, per fattore democratico, a guidare. Vale per la questione dei dazi, per cui si sconsiglia vivamente di consegnare la dichiarazione di guerra (commerciale) all’ambasciatore degli Stati Uniti d’America come vorrebbe un allucinato – e allucinante – Emmanuel Macron.
Ma vale anche per il diniego espresso dall’Italia al dirottamento, a beneficio del piano nazionale di riarmo, di parte dei fondi concessi dall’Unione europea per le politiche di coesione. Lo diciamo dritto: Giorgia Meloni – pressata da un Matteo Salvini impegnato a disinnescare le congiure di palazzo all’interno del suo partito – è stata improvvidamente frettolosa nel giurare che il nostro Paese mai avrebbe toccato i denari dei fondi per le politiche di coesione deviandoli in favore di investimenti nel comparto della Difesa. Fortuna che a Bruxelles c’è quella vecchia volpe democristiana di Raffaele Fitto, che ha concesso ai singoli Stati, destinatari dei fondi per la coesione, di decidere in via discrezionale se utilizzarli o meno per il riarmo. Il che offre tempo per doverosi ripensamenti. Meloni ha sentito il peso delle opposizioni progressiste che, sul punto specifico, hanno montato un’indecente cagnara: niente più strade e asili nido per i poveri cittadini del Sud, ma mitragliatrici e cannoni.
È disgustoso vedere i sinistri gloriarsi della loro demagogia da disfattisti e da nemici della patria. Ma sono progressisti e, come si sa, costoro sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i traditori, tanto per parafrasare William Shakespeare. Meloni, invece, dovrebbe cogliere la possibilità offerta dalla Commissione, come manna caduta dal cielo. Di cosa parliamo e a chi sono destinati i finanziamenti per le politiche di coesione? L’obiettivo dell’Unione europea è la riduzione delle disparità fra le diverse regioni degli Stati membri. Le politiche di sviluppo regionale mirano ad annullare il gap economico e sociale che determina lo squilibrio delle condizioni di vita, su base di appartenenza territoriale, dei cittadini all’interno della stessa nazione. Ora, l’Accordo di partenariato Italia-Ue, approvato il 19 luglio 2022, ha portato al nostro Paese, per il ciclo di programmazione 2021-2027, una dotazione finanziaria di 42,7 miliardi. Il piano di riparto nazionale ha previsto che la parte più rilevante della dotazione (oltre 30 miliardi) venisse assegnata alle regioni meno sviluppate. Sul punto bisogna essere precisi e non raccontare fandonie: questa montagna di denari è rivolta alle politiche di coesione in senso generale.
Tali policy, in Italia, vengono implementante attingendo al Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), al Fondo sociale europeo Plus (Fse+), al Fondo per la giusta transizione (Jtf), al Fondo Europeo per gli Affari Marittimi, la Pesca e l'Acquacoltura (Feampa), ma non al Fondo di coesione (Fc), al quale il nostro Paese non ha accesso in quanto esso è riservato a quegli Stati con un reddito nazionale lordo (Rnl) pro capite inferiore al 90 per cento della media dell’Ue-27. Guardando alla ripartizione territoriale delle risorse, dei 41,150 miliardi a valere sui Fondi Fesr e Fse+, 30,1 miliardi di euro vanno alle regioni meridionali e insulari. Un Himalaya di denari, per farci cosa? Rotonde stradali e sagre di paese? Puntare sull’innovazione tecnologica con lo sviluppo delle aziende dell’hi-tech, è la carta vincente.
Il Mezzogiorno non è la locandina di Gomorra e non si è fermato a Eboli. Annovera poli di eccellenza, che vanno dalla meccatronica all’aeronautica all’Information & Communication Technology. Vi sono aziende di differenti dimensioni che hanno conquistato posizioni di leadership tecnologica a livello internazionale. Soprattutto, il Sud ha la sua carta migliore nella materia prima che è il capitale umano. Un capitale che le politiche criminogene dei governi di sinistra degli ultimi anni hanno lasciato evaporare. Una fuga dei cervelli che è diventata emorragia tra il 2012 e il 2018 quando hanno lasciato il Sud oltre 130mila giovani con una formazione elevata, 20mila soltanto nel 2018 (fonte: webinar organizzato da Intesa Sanpaolo e Fondazione R&I, in collaborazione con Srm – Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, Nuovo sviluppo al Sud – La leva dell’imprenditorialità tecnologica, 20 gennaio 2021). E chi c’era al Governo in quegli anni? Le fate ignoranti dell’accoglienza illimitata dell’immigrazione illegale, ecco chi c’era. Se, adesso, abbiamo il modo di investire risorse che non impattano sul deficit di bilancio, perché non farlo con imprese che possono ampliare i loro spazi d’investimento al Sud? E quelle del comparto della Difesa sono le più efficienti e preparate.
Dal recente rapporto di Mediobanca sul Sistema Difesa riguardo le maggiori imprese italiane del comparto e della loro dinamica economica nel triennio 2021-2023 emerge che le Top 100 aziende dell’hi-tech hanno prodotto un fatturato aggregato pari a 40,7 miliardi di euro nel 2023, del quale attribuibile interamente alla Difesa si stima il 49 per cento del totale, pari a circa 20 miliardi di euro. Riguardo alla forza lavoro, che ammonta complessivamente a oltre 181mila persone per le Top 100 nel 2023, la quota riferita alla Difesa e impiegata in Italia si attesta a oltre 54mila unità. Il valore aggiunto attribuibile all’industria della Difesa è pari a circa lo 0,3 per cento del Pil italiano nel 2023 (fonte: Report Mediobanca). Nella distribuzione territoriale il Sud appare fortemente penalizzato, ma si tratta di una distorsione della realtà. Attualmente, il fatturato del Sud, riguardo all’industria della Difesa, si attesta a 0,9 miliardi di euro ed è dato da otto aziende di piccole-medie dimensioni. Le società del Centro Italia fatturano 23,1 miliardi e quelle del Nord Est 10,7 miliardi, contribuendo per oltre l’80 per cento al volume complessivo delle vendite nel settore, grazie alla presenza delle sedi legali delle due principali holding nell’industria della Difesa, Leonardo e Fincantieri (Roma e Trieste). Ma entrambe le aziende hanno impianti industriali attivi al Sud che alimentano un indotto diffuso di rilevanza strategica per le economie locali.
Se riuscissimo a scrollarci di dosso la tossicità delle diatribe demagogiche dei partiti, potremmo constatare che lo sviluppo tecnologico connesso agli scopi militari rappresenti un’opportunità straordinaria per il lavoro di qualità in quel Mezzogiorno che la sinistra delle anime belle progressiste vorrebbe condannare alla cattività bucolica delle sagre di paese e delle rotatorie stradali nel deserto. Domani, una parte di quei massacratori dell’Italia che lavora e che vuole crescere si ritrova in piazza per la solita gazzarra pacifista e per ribadire un suicida no al riarmo. Ci facciano un favore, almeno una volta nella vita: si tolgano dai piedi. E anche Giorgia Meloni, faccia un favore a sé stessa e agli italiani: non corra dietro al pacifismo disfattista della sinistra e riprenda a ragionare con lucidità. Come ha fatto finora.
Aggiornato il 07 aprile 2025 alle ore 09:36