Non sono bastati i processi farsa, la paura instillata a reti e giornali pressoché unificati, le pallottole, le mignotte, le passerelle di divi hollywoodiani, i sondaggi farlocchi volti a manipolare le intenzioni di voto a fermare gli elettori repubblicani, anzi trumpiani: Donald J. Trump è ufficialmente il 47° presidente degli Stati Uniti. E già solo questo, che un presidente venga rieletto una seconda volta ma non consecutivamente, è quasi un unicum nella storia della più grande e antica democrazia occidentale. Prima d’ora era accaduto solo in un’altra occasione, con il democratico Grover Cleveland, 22° presidente dal 1885 al 1889 e 24° dal 1893 al 1897, con l’intermezzo repubblicano di Benjamin Harrison.
La vittoria di Trump, che chi scrive peraltro non aveva mai messo in dubbio, è stata però più strabordante rispetto anche alle più rosee aspettative. Non solo il tycoon si è aggiudicato velocemente due Stati chiave come Georgia e Pennsylvania, quest’ultimo assolutamente necessario per vincere la battaglia finale, ma già poche ore dopo la chiusura dei seggi è arrivata l’altra notizia che ha fatto capire chiaramente che il vento stava tirando a favore dei repubblicani e cioè la conquista, avvenuta strappando tre seggi ai democratici, della maggioranza assoluta al Senato oltre al probabile mantenimento di quella alla Camera dei rappresentanti. Già così sarebbe stata una vittoria memorabile, ma la valanga repubblicana che ha portato nuovamente The Donald alla Casa Bianca riservava un’ultima gustosissima sorpresa, questa sì inaspettata: la vittoria pure nel voto popolare, con oltre cinque milioni di voti in più di Kamala Harris. Mentre scrivo, a conteggi ancora non ultimati, Trump ha incassato quasi 72 milioni di preferenze contro i 66 e spicci della candidata democratica. Un successo così, a parte Reagan, nel campo repubblicano lo aveva raggiunto negli ultimi cinquant’anni solo George W. Bush nel 2004.
Messa da parte la nostra soddisfazione per il vincitore – che è Trump e solo Trump, questo va riconosciuto – è però il momento di analizzare i motivi della debacle democratica e ancor più chi sono i veri sconfitti di questa storica giornata. Cominciamo dai media, da quel mainstream talmente servile ai democratici e alla sinistra americana che vien solo da ridere a pensare come, a casa nostra, si possa parlare di una presunta “Tele Meloni”. Basti solo ricordare che già nel 2016 la CNN veniva definita candidamente “Clinton News Network” e il lettore capirà bene di quel che stiamo parlando. Oltre alla CNN non possiamo non citare la CBS, l’ABC, il New York Times, il Los Angeles Times e potremmo continuare all’infinito con quei media che hanno creato, raccontato, sviluppato e “venduto” al mondo un racconto tutto artefatto e confezionato su misura per Kamala, colei che fino al ritiro di Joe Biden avevano snobbato e ritenuto poco più, o poco meno, a seconda della chiave di lettura che si vuole dare, di una miracolata da tenere possibilmente in disparte (anche su ordine del comandante in capo).
Ci hanno fatto credere che Kamala fosse in rampa di lancio per essere la prima presidente donna degli Stati Uniti. Ci hanno propinato sondaggi confezionati ad arte in cui lei era avanti ovunque, con un distacco consolidato su Trump nel voto popolare che anche noi, sicuri della vittoria di Donald, ritenevamo plausibile sotto certi aspetti. Hanno addirittura diffuso un sondaggio, ovviamente ripreso dai media italiani di loro pari appartenenza politica (quindi quasi tutti) che a due giorni dal voto l’Iowa, uno stato che Trump vinse con un margine di dieci punti nel 2016 e di otto nel 2020, fosse passato miracolosamente nelle braccia democratiche con addirittura tre punti percentuali di vantaggio. Com’è andata lo sappiamo e lo sapevamo: Trump ha riconquistato questo stato solidamente repubblicano con una maggioranza bulgara.
Gli stessi media proni ai Dem e succubi del “Vate” Obama hanno poi tergiversato, quando i leader di tutto il mondo ormai si congratulavano per l’elezione di Trump e Fox News aveva già certificato la sua vittoria assegnandogli anche il Wisconsin nelle prime ore dell’alba italiana, prima di ammettere la sconfitta della sfortunata Harris. Imbarazzante a dir poco l’aver ufficializzato la vittoria del tycoon con ore di ritardo rispetto alla realtà, quando tutto il mondo ormai era certissimo della nuova svolta statunitense. Un’analisi della sconfitta, stavolta non tanto politica ma liberale intesa come libertà di stampa, saranno certamente loro i primi a doverla fare se vorranno continuare a vender copie o ad avere spettatori, ma soprattutto ad essere ancora un minimo credibili.
E poi c’è l’altro grande, forse il maggiore sconfitto di questa disperata “operazione Kamala”, il convitato di pietra per eccellenza: Barack Obama. Dopo averla spalleggiata, diretta, sponsorizzata, ammaliata con quell’imbarazzante “è la procuratrice più sexy degli Stati Uniti” (poi rimangiato dopo aver fatto i conti con l’allora first lady Michelle) ai tempi dell’esperienza californiana della ormai ex candidata alla Casa Bianca, Obama pensava di fare l’operazione del secolo, anzi della storia: dopo aver fatto eleggere il suo vicepresidente quattro anni fa, puntava anche a portare nello studio ovale la vice del vice, di fatto portandosi a casa un quarto mandato presidenziale per interposta persona. Barack, che da tempo si è trasformato dall’immigrato di seconda generazione che ce l’ha fatta al membro più in vista dell’establishment più esclusivo d’America, soggetto a quella marcata vena di snobismo che ci sta sempre bene, è riuscito addirittura ad insultare i maschi neri come lui in un paio di comizi pro Kamala, impartendo loro direttive precise su come e chi votare. Ovviamente l’uomo medio afroamericano non si fa comandare da nessuno e il sonoro pernacchione è arrivato ben presto nelle urne che certificano con estrema precisione come, oltre ai latinos, i black siano stati tutt’altro che una base elettorale sicura per la candidata democratica.
Una disfatta totale per l’ex presidente che fino a ieri vaticinava la possibilità concreta che lo spoglio sarebbe andato per le lunghe, con un testa a testa che avrebbe portato, manco a dirlo, alla vittoria della sua protetta. Un copione stracciato dagli eventi e dalla consapevolezza che tutto è stato sbagliato fin dall’inizio, con sommo gaudio di Joe Biden, rottamato a meno di cento giorni dalle elezioni e ancora con il dente avvelenato. Si apre ora una battaglia tutta interna ai democratici, con la vecchia guardia – a cominciare dallo stesso Obama e da quella sorta di mummia egizia di Nancy Pelosi – a breve posta sul banco degli imputati da quella (vera) nuova generazione democratica che, come Alexandria Ocasio-Cortez, il governatore della California Gavin Newsom o quello della Pennsylvania, Josh Shapiro (e vaglielo a spiegare a Kamala che se avesse candidato lui forse lo stato più importante di questa tornata l’avrebbe portato a casa), già si proiettano al 2028.
Aggiornato il 08 novembre 2024 alle ore 09:35