Manca pochissimo ormai e, salvo colpi di scena, già mercoledì prossimo gli Stati Uniti sapranno chi sarà il loro quarantasettesimo Presidente. La fatidica data che tutto il mondo attendeva da mesi, martedì 5 novembre, è ormai alle porte e circa duecento milioni di elettori americani saranno chiamati a decidere da chi vorranno essere governati per i prossimi quattro anni. A dire il vero, e questo è un record assoluto in confronto alle più recenti presidenziali americane, quasi cinquanta milioni di elettori hanno già espresso la propria preferenza, chi per corrispondenza, chi sfruttando la possibilità di votare anticipatamente messa a disposizione da alcuni Stati o distretti elettorali. Sul voto per corrispondenza c’è peraltro da notare un fattore nuovo: per la prima volta rispetto alle due corse precedenti, nel 2016 e nel 2020, Donald Trump si è convinto della bontà di investire sia dal punto comunicativo che organizzativo su questo metodo elettorale. Tutto merito di Lara Trump, copresidente del Comitato nazionale repubblicano e moglie di Eric, il terzogenito del tycoon. Per più di un anno Lara ha spinto il suocero a lasciar cadere le sue diffidenze sul voto postale, sottolineando il fatto che in gran parte è grazie a questo che i democratici sono riusciti a strappargli la presidenza quattro anni fa e che pure una buona quantità dei brogli elettorali di cui Trump accusa gli avversari sono nati proprio da quelle buste sigillate e spedite per posta. Ora che i Repubblicani si sono finalmente ravveduti e strutturati capillarmente, grazie anche al supporto economico di Elon Musk, il controllo sul voto postale questa volta sarà una sfida alla pari, quanto meno sotto il profilo dell’organizzazione. Certo, inutile sottovalutare i Dem, sappiamo benissimo come questi siano i campioni – se non proprio gli inventori – delle truffe elettorali più colossali della storia recente, non ci resta quindi che sperare. E se oggi siamo qui a scrivere di speranza, è giunto anche il momento di dire qual è la nostra, di questo quotidiano che ha fatto della Libertà la sua stella polare, tanto da affiancarla al suo storico nome.
Per noi de L’Opinione, liberali fin nel midollo, la speranza non può che essere una sola: che Donald Trump vinca le elezioni di martedì e torni finalmente alla Casa Bianca. L’elenco dei motivi, dati concreti alla mano, per cui riteniamo che gli Stati Uniti stessero meglio durante il suo primo mandato li abbiamo più volte scritti e riportati (anche in questi giorni) e non c’è quindi motivo di ricordarli ulteriormente oggi. Ci limitiamo solo a far presente che quasi tutti i sondaggi certificano come più della metà degli intervistati ritenga oggi di stare economicamente e socialmente peggio rispetto a quattro anni fa: questo è già sufficiente ad alimentare quella speranza di cui parlavamo poco sopra. E quella Libertà di pensiero, di espressione, di Opinione che ci caratterizza ed è insita nel nostro Dna ci porta anche a riconoscere che forse avremmo preferito un partito repubblicano diverso, quel baluardo della democrazia conservatrice che tanto ci ha affascinato nel tempo e che ha dato agli Stati Uniti e al mondo tanti grandi presidenti. Forse l’avvento di Donald Trump ha un po’ snaturato il partito dell’elefantino e ci spingiamo pure a dire che avremmo preferito un altro candidato, come per esempio l’ottimo governatore della Florida Ron DeSantis, ma ci sentiamo di affermare con decisione che una nuova amministrazione americana targata Dem, ancor più se rappresentata da Kamala Harris, sarebbe un disastro non solo per gli Stati Uniti, ma anche per il resto del pianeta. Perché per noi, nonostante le sue innumerevoli giravolte elettorali, Kamala Harris rimarrà sempre l’esponente di quella sinistra radicale che ha sfasciato l’America, che l’ha resa più insicura, che ha depenalizzato i reati minori, che vuole confini aperti a tutti, che preferisce professare le teorie Gender e Woke fregandosene della famiglia tradizionale. Kamala è e sarà sempre la vicepresidente di un’amministrazione che ha continuato a dare la possibilità all’Iran di vendere il suo petrolio infischiandosene delle sanzioni che solo sotto l’amministrazione Trump erano realmente rispettate. Harris è la numero due di un’amministrazione che da quasi tre anni foraggia con armi l’Ucraina con il solo interesse di veder indebolito Putin quando invece quest’ultimo ha di fatto vinto la sua guerra, cosa che nessuno si permette di dire o scrivere, e chissenefrega dei milioni di morti da ambo le parti. Kamala Harris è e resterà sempre colei che quattro anni fa alimentava l’odio tra etnie americane affermando – nei dibattiti televisivi e nella sua breve campagna elettorale contro Joe Biden per la conquista della nomination democratica – che gli Stati Uniti sono un paese visceralmente ed intrinsecamente razzista. Fortunatamente non sono bastate le lezioni di recupero che le ha offerto gratuitamente il suo grande mentore Barack Obama per far dimenticare quelle parole agli elettori, oggi sia la comunità dei latinos che quella afroamericana non si fidano ciecamente di lei. Kamala Harris rimarrà sempre quella che fino a qualche mese fa anche i grandi network dell’informazione americana (tutti appiattiti servizievolmente su posizioni democratiche) ritenevano pressappoco come un’insignificante ed incapace meteora come tanti altri vicepresidenti di cui nessuno oggi ricorda il nome. Resterà sempre, Kamala, colei che presa dalla disperazione a pochi giorni da queste storiche elezioni ha sentito la necessità di rispolverare due sciocchi refrain come il possibile ritorno del Nazismo o del Fascismo, due terribili dittature di cui né lei né l’americano medio sanno neppure cosa esse siano, pur di screditare l’avversario e terrorizzare l’elettorato da una possibile vittoria di quest’ultimo. Peccato che in questo caso l’avversario sia già stato presidente e a noi, come pure alla stragrande maggioranza degli americani, non pare che la democrazia sia stata sovvertita, tutt’altro. Kamala Harris per noi rimarrà sempre colei che dopo aver fallito miseramente nella gestione dell’unico dossier importante che Joe Biden le ha affidato in questi disastrosi tre anni e mezzo di presidenza democratica, quello sull’immigrazione e la sicurezza al confine con il Messico, oggi scopiazza parte del programma di Trump sulla questione. Alla copia raffazzonata chiunque di buon senso preferirebbe l’originale, non c’è nemmeno da sottolinearlo. Ad una candidata che ha cambiato mille e più volte idee, programmi, prospettive, convinzioni, noi preferiamo – e speriamo anche i cittadini americani – chi è sempre rimasto fedele ai suoi ideali e alla sua visione dell’America e del mondo: Donald Trump.
Aggiornato il 04 novembre 2024 alle ore 09:56